venerdì 27 febbraio 2009

Altri luoghi, altri ricordi


Era qualche anno fa. Ero a Delhi, mi rendeva felice quel viaggio. All'arrivo si erano persi il bagaglio, faticai a trovare un taxi, c'era un gran casino, un traffico che anche per un romano era troppo. Stordita, arrivai in albergo al centro di New Delhi e per qualche giorno, per poche ore in fondo, vagai tra le strade di Delhi, con la nebbia invernale, una bruma soffice che rende ancor più straniante l'effetto del fuso orario e del luogo così diverso. Felice possessore del solo spazzolino da denti, mi concessi una breve pausa prima dell'arrivo della valigia e l'inizio del lavoro. In India ci sono sempre andata a lavorare, solo come effetto secondario mi sono potuta permettere di perdermi nelle sue strade, nei luoghi antichi, tra la gente, guardarmi intorno, immergendomi nell'effetto caleidoscopio che la caratterizza (è il mio caleidoscopio gigante preferito). Ogni volta mi sono, felicemente, lasciata inghiottire, modificare e arricchire cercando di non porre barriere mentali tra me e le impressioni che ricevevo.
Esistono luoghi così, talmente diversi da noi in apparenza, da pensarli estranei, mentre poi, scopri che li avevi già dentro. E' una scoperta di una parte di te che risuona con ed in quel luogo. Per ogni viaggiatore una parte diversa. In me l'India dei santoni, della magia, delle migliaia di dei che convivono, non risuona, quella che mi ha parlato ogni volta è l'India dell'infinita vitalità. Una sensazione di immensa capacità vitale che, oltretutto, riproduce se stessa da migliaia di anni; un qualcosa che mi ha nutrito e incantato in ogni occasione. In quel viaggio, in particolare, penso mi abbia tenuto in vita (potete pure chiedervi cosa avessi fumato-mangiato, io nego ogni uso di sostanze stupefacenti, almeno in quell'occasione). Non sapevo di essere fisicamente in pericolo, avevo un problema che stava diventando mortale, non lo sapevo, sentivo di essere a rischio, ma non capivo né come, né perché. Eppure sono ancora qui, ho girato per quella terra, ho lavorato e sono riuscita a goderne nonostante tutto. Cominciavo a star male sul serio, ma fu come una tregua, una sosta, fu come se avessi il permesso di fare quel viaggio...
Ripenso a quei giorni, a quando sono tornata, al medico che mi ha "ripreso per i capelli" e al quale sarò sempre grata. Ripenso al febbraio di quell'anno, quando, uscendo dall'ospedale, non potevo ancora credere di essere lì a respirare. Penso a quei giorni forse perchè ricorrono ora e con prepotenza, torna a tratti, dalla memoria, la sensazione fisica di gioia, di sorpresa, che provai nel rendermi conto di essere ancora viva. Con quel ricordo vitale riaffiora anche il dolore e con lui la paura, ed anche il rimpianto per alcune cose che non potranno mai essere, tutte sensazioni che solo ora comincio a digerire. Penso, sopratutto, a tutte le volte in cui si ha una seconda possibilità.

«La lezione più importante che l'uomo possa imparare in vita sua non è che nel mondo esiste il dolore, ma che dipende da noi trarne profitto, che ci è consentito trasformarlo in gioia.»
Tagore


martedì 24 febbraio 2009

Viaggi desiderati I: Silencio-Madredeus

Ecco oggi vorrei poter partire, prendere un aereo prima per Lisbona, poi un altro per le Azzorre. Passare una settimana girando, un po' a piedi, un po' in macchina, ascoltando il silenzio di quei luoghi. Respirando l'odore dell'oceano, riempiendomi le scarpe di sabbia sulle spiagge scure e i polmoni d'aria sulle montagne. Al massimo ogni tanto accenderei un po' musica, forse solo Madredeus perché in tono con il luogo e l'umore.

Qualcuno vuole venire?

domenica 22 febbraio 2009

Immobilità


Foto di Sandro B.
Statue, corpi immobili. Tensione di muscoli colti nell'atto di contrarsi, striature di movimento ricamate sulla pietra. Come un gioco di scatole cinesi, una foto di una statua è rappresentazione immobile di altra immobilità.
La guardo e per contrasto penso alla mia continua necessità di movimento, alla claustrofobia che l'immobilità a volte mi genera. Eppure so stare ferma, fisicamente immobile anche per molto tempo, il mio record è stato 40 minuti. Dopo tutta quella stasi avevo difficoltà a muovermi di nuovo, ma c'ero riuscita, svuotando la mente dai pensieri, sentendo solo il respiro, ero rimasta ferma senza nessun panico, senza nessuna ansia. Una sensazione bellissima.
L'immobilità diventa sofferenza, soffocamento solo se è contrasto al movimento. Al movimento dei pensieri in particolare, la mente si muove e il corpo vuole seguirla. Non c'è separazione tra corpo e mente, se una va l'altro segue e spesso accade anche il viceversa, il corpo conduce la mente in qualche luogo che lei ancora non conosce, che non ha nominato. In questa altalena di chi tira e chi segue, entra poi la paura di quelle pause profonde che a volte non sappiamo fare nemmeno dormendo. Diventare statue, anzi foto di statue, ottenendo quella doppia immobilità, sia del corpo che della mente ci fa sentire troppo vicini alla morte. Eppure esiste una qualità della mente che ci può permettere di essere statue e al tempo stesso capaci di muoverci rapidissimi, estremamente vivi, è una qualità di quiete, di assenza di dialogo interno, l'omino interiore tace, nessuno parla. Quella qualità si realizza quando mi limito, anzi no, sono capace di sentire soltanto.

Segui la tua sorte,
annaffia le tue piante,
ama le tue rose.
Il resto è l'ombra
d'alberi stranieri.

La realtà
è sempre di più o di meno
di quello che vogliamo.
Solo noi siamo sempre
uguali a noi stessi.

Dolce è vivere solo.
Grande e nobile è sempre
vivere con semplicità.
Lascia il dolore sulle are
come offerta agli dèi.

Guarda la vita da lontano,
e non interrogarla mai.
Nulla essa può
dirti. La risposta
è al di là degli dèi.

Ma serenamente
imita l'Olimpo
nel segreto del tuo cuore.
Gli dèi sono dèi
perché non si pensano.
(Fernando Pessoa)

giovedì 19 febbraio 2009

Sassi



A Roma ci sono pezzi di strada fatti così, come nella foto. Sassi antichi sui quali i piedi di milioni di esseri umani e non, sono passati. Strade romane di oggi, di ieri e dell'altro ieri, le percorro spesso, un piede davanti all'altro, quasi sempre guardando per aria. L'ho già detto che mi piace camminare, mentre vado penso, guardo, ridacchio osservando cose e persone e anche piango, quando luoghi e oggetti mi ricordano qualcuno o qualcosa che ancora duole. I luoghi hanno per ciascuno di noi una memoria, sono come delle ancore di pensieri e vicende, conservano per noi, nella nostra mente, un brandello di un avvenimento, di una persona. Così mi capita spesso di chiedermi a proposito di questi luoghi, di questo posto in cui vive gente da molto più che 2000 anni, cosa abbia di particolare. Cosa ha Roma, per essere punto di attrazione da così tanto tempo? Magari questi sassi, che sono anche strada lo sanno, sono stati ancore per ricordi innumerevoli, hanno ascoltato, visto, vissuto, una quantità di vicende impensabile per noi che siamo più transitori, per noi che li calpestiamo, anche distrattamente. Ho girato tanto in vita mia, vissuto in altri luoghi per periodi più o meno lunghi, solo in India, in alcuni luoghi antichi, ho provato qualcosa di simile a quello che mi comunica Roma. Un senso del luogo in sé, come se ci fosse una ragione, che non so, per star lì, per restare lì.
A volte cammino per queste strade senza percepire nulla di ciò che ho intorno, o almeno così mi sembra, però ho magari scattato qualche foto, ho comunque posato gli occhi da qualche parte e a posteriori scopro che, comunque, qualcosa mi è rimasto addosso, qualche impressione, qualcosa di sottile che non ha nome. Quel qualcosa che sempre e comunque mi riporta qui, a questo luogo per restarci.

Viaggiare! Perdere paesi!
Essere altro costantemente,
non aver radici, per l'anima,
da vivere soltanto da vedere!

Neanche a me appartenere!
Andare avanti, andare dietro
l'assenza di avere un fine,
e d'ansia conseguirlo!

Viaggiare così è viaggio,
Ma lo faccio e non ho di mio
più del sogno del passaggio.
Il resto è solo terra e cielo.
(Fernando Pessoa)

martedì 17 febbraio 2009

Anomalie: sogno

Questo è un post anomalo. Noterete infatti che i commenti non sono abilitati. Non è un dialogo è un esercizio, una cosa criptica che ha senso solo per me e forse per A., insomma questa cosa me la capisco solo io....

Esterno giorno, cammino verso la stazione. Entro, cammino sui marciapiedi dei binari. Squarci di cielo tra le strutture, folla che si muove. In mano ho un biglietto dell'autobus, sto cercando S.Z. per darglielo. Inquadratura dei piedi con delle scarpe nere che percorrono i pavimenti della stazione Termini.

Folla immobile, io mi muovo. La camera inquadra la mano con il biglietto dell'autobus. In lontananza vedo S.Z., abbiamo appuntamento e lei comincia a muoversi mentre gli altri restano fermi. Sorride. Le do il biglietto sorridendo. Ora possiamo andare.
Esterno notte.



Ps se proprio vi scappa da dire qualcosa c'è sempre l'email.

domenica 15 febbraio 2009

Punti di vista


La vita da numero dispari (dal titolo di questo blog) ha molti pregi, non devi render conto a nessuno dei tuoi spostamenti, decidi all'impronta quel che vuoi fare, puoi vivere alla giornata. Nessuno ti ammorba per ore con dettagli dettagliatissimi su guai (o presunti tali) capitati in corso di giornata, non sei costretta a contenere crisi di ipocondria generate da un raffreddore o da un'unghia incarnita, a bandire cibi da te amati da casa perché ad altri fanno schifo. Esci quando vuoi, accendi la luce e leggi in caso d'insonnia, anzi se proprio non riesci a dormire prendi e vai a far due passi, e la lista è lunga... insomma la libertà dell'essere da soli ripaga del disagio che sei anche da sola a dover far tutto (rompendo l'anima agli amici per i lavori pesanti).
Non tutti però la pensano così, alcuni ti immaginano sola la sera, magari davanti al televisore a guardare qualche orrido scemeggiato (non è un errore di battitura) o a leggere poesie d'amore sospirando. Ovviamente chi la vede così sono certi amici felicemente coniugati-accoppiati-innamorati. Questi si prodigano per alleviare le tue presunte sofferenze. "Tesoro, ormai non sei più nel primo fiore" esordiscono, un po' maleducati e prodighi di consigli, "dovresti impegnarti a trovare qualcuno, qualcuno per costruire qualcosa, per non star lì sola. Devi pensare al futuro, il tempo passa ...". E via su questa linea enunciando gli immensi pregi di un rapporto stabile-duraturo-confortante seguito da lista dei tuoi indubbi pregi e di come tu debba valorizzarli. Io resto perplessa, annuisco, provo ad infilare qualche parola in queste apologie del matrimonio-unione-di-fatto, di solito non ci riesco. Ora questi adorabili ben intenzionati, un discorso del genere non dovrebbero farlo a me, che sono ormai ben lontana anche dal secondo fiore, che ho già "costruito" due convivenze (l'ultima chiusa un anno fa... datemi tempo) raccattando i relativi cocci, e che "lì da sola" a sospirare ci sto solo quando mi viene il mal di pancia. Però loro, che la sera si rintanano in casa a guardare scemeggiati, a farsi coccole sul divano e a cenare con due-cosette-veloci-che-siamo-stanchi, sono così felici di questo che non sopportano l'idea di te da sola. La tua solitudine gli duole, ci proiettano sopra qualcosa che a loro fa paura, qualcosa che proprio non riescono ad accettare. Questi amici, non sono tra coloro che frequento regolarmente, i "regolari" non mi immaginerebbero mai sola a sospirare malata di solitudine, chi mi conosce bene, mi vede piuttosto pronta a staccare il telefono per non avere rotture di palle che sospirante. Comunque, gli altri, i ben intenzionati, magari colleghi affettuosi o vecchie conoscenze ormai un po' distanti, non sono pericolosi finché si limitano alle parole, la cosa non è grave, magari risibile, ma non pericolosa. Il problema sorge quando decidono di passare all'azione. "Tesoro, vieni a cena da noi stasera?" e ti fanno l'agguato.
A cena c'è il caro-amico-cognato-collega che loro sono sicuri vada bene per te. Quindi ha tra i 5 e i 10 anni più di te (e fin qui ci siamo) ha pertanto una vita alle spalle, magari un tot di ex-mogli e figli e animali domestici, tutti problematici. E' provato dalla vita, lui sì che sospira perché solo, non cura il fisico (e con 5-10 anni più di me se non ti curi sei un rottame), vede molta televisione, adora il calcio, legge poco, se usa il computer per qualcosa di più che le email grasso che cola, se non ha la forfora sulle spalle è un miracolo. Loro lo definiscono "uomo tranquillo e per bene", io un "disperato."
Le serate così hanno dei punti fissi, il tempo scorre tra le lamentele sui congiunti problematici, le battute un po' in stile pierino-bombolo-cinema di serie B anni 70, il cibo fa schifo, oppure si sono scordati che io ho un'intolleranza alimentare e certe cose proprio non posso mangiarle, pena mal di pancia grave (che poi sì che sospiro), per cui resto anche sostanzialmente digiuna. Sono stranamente silenziosa, non ho argomenti, non vedo quasi la televisione, di calcio non mi occupo, lo sport lo pratico non a voce ed ho un'insana passione, professionale e non, per i computer. Di che parlo con il povero solitario-con-forfora? Rifletto tra me e me. Non riesco ad essere abbastanza scostante, un pat-pat, sulla spalla potrebbe scapparmi e poi quello magari, pensa che sono interessata, meglio il silenzio. Però non riesco a smettere di chiedermi: questi ben intenzionati mi hanno preso per un'opera assistenziale, per una sorta di salvatrice del povero-uomo-solo-e-derelitto? mi rispondo: credo di sì. Oppure, mi interrogo, pensano che sono così un cesso in tutti i sensi, da dovermi accontentare del primo gatto bagnato che incontro per strada? No, sono io che fraintendo. Ho, infatti, chiesto lumi dopo una serata di queste (rare, mi ci fregano raramente) e mi è stato spiegato che, anche se non conoscono personalmente l'eventuale amante che ha condiviso la mia strada per un po' o i miei corteggiatori e quindi non hanno elementi diretti su di essi, loro sanno che per metter su qualcosa di serio, non vanno bene quei bizzarri, sconclusionati, inaffidabili, contorti soggetti che mi trovo da sola. Ci vuole un uomo solido, di buoni sentimenti, e pace se da guardare non è un granché e tu non sai che dirgli, dovresti comunque dargli una possibilità.... e pensare che io, i miei bizzarri sconclusionati, inaffidabili e sì, anche un po' contorti, corteggiatori (o amanti o amici che siano), li trovo carini, divertenti, stimolanti, persino intelligenti. Oltretutto, dato che, comunque, in casa non mi prenderei nessuno nemmeno a pensione, mi piacciono così. Eh, sì è un problema di punti di vista.

giovedì 12 febbraio 2009

Inverno 2

Gli alberi invernali, i platani di Roma in particolare, hanno per me un fascino speciale. I loro rami ricamano trine di nulla a contrasto con il cielo, se questo poi è limpido, ne nasce un merletto, una passamaneria eterea e complicata, come nessuno potrà mai realizzare. Per questo mi piace guardarli in quelle (quest'anno rarissime) giornate di cielo limpido, quando magari fa un freddo dell'altro mondo, ma la luce è intensa. Cammino lungo il Tevere, andrei con il naso per aria, non fosse che la via è sempre affollata, allora ogni tanto mi fermo, appoggio la schiena al parapetto dell'argine, allungo un po' le gambe e mi perdo tra i rami. Gli occhi saltano da un ramo ad un rametto, ad un altro ancora più piccolo. Si perdono nella trama labirintica degli incroci, nei disegni leggeri creati dagli spazi vuoti. Così facendo un senso di bellezza e pienezza si forma, quel senso di piacere del vivere, cosa che ci concediamo raramente, diventa centrale. Se poi è domenica, magari anche di mattina presto, c'è anche poco traffico, il vento porta via la puzza di smog, l'aria sembra quasi pulita, la respiro con il naso gelato, la assorbo insieme all'odore del fiume, al grido dei gabbiani. Ad ogni espirazione un po' di detriti escono, qualche doloretto dell'anima, qualche ricordo spiacevole in più, lo lascio là nel merletto fatto di cielo e legno.

Se io, ancor che nessuno,
potessi avere sul volto
quel lampo fugace
che quegli alberi hanno,
avrei quella gioia
delle cose al di fuori,
perché la gioia è dell'attimo;
dispare col sole che gela.
Qualunque cosa m'avrebbe meglio
giovato della vita che vivo -
vivere questa vita di estraneo
che da lui, dal sole, mi era venuta!
Viaggiare! Perdere paesi!
Essere altro costantemente,
non avere radici, per l'anima,
da vivere soltanto di vedere!
Neanche a me appartenere!
Andare avanti, andare dietro
l'assenza di avere un fine,
e l'ansia di conseguirlo!
Viaggiare così è viaggio.
Ma lo faccio e non ho di mio
più del sogno del passaggio.
Il resto è solo terra e cielo.
(Fernando Pessoa)

lunedì 9 febbraio 2009

Requiem


Foto di Sandro B.

Quando finisce il tempo di qualcosa o qualcuno si dicono tante cose, la foto di Sandro mi evoca in particolare un modo dire che da il senso del definitivo nella nostra cultura a base cattolica: metterci una croce sopra. Seppellire qualcosa, qualcuno, lasciare andare, quando arriva il momento. Non subito, mai subito. Nessuno ci riesce subito. Il Libro tibetano dei morti dice che ci vogliono 40 giorni alle anime dei morti per andarsene davvero. Quanto ci mettiamo noi per lasciare andare qualcosa che è morto? Quante volte ci aggrappiamo anche solo al ricordo pur di non lasciar andare?
Con mia madre ci ho messo anni, una notte l'ho sognata, dopo tanto tempo, erano passati 5 anni dalla sua morte, mi disse "lasciami andare, per favore". Ed io l'ho fatto. Era arrivato il tempo, il mio tempo per far questo.
Altre cose, più immateriali delle persone non riusciamo mai a lasciarle andare. Un torto subito, un dolore vissuto, un'umiliazione. Continuano a restare, ad aleggiare su di noi, dentro di noi, continuando a condizionare ogni gesto, ogni parola, anche se noi non pensiamo sia più così. Accade che ci si convinca di essere "andati oltre" un'esperienza che ci ha segnato, per poi scoprire di averne solo bloccato gli effetti. Il bloccare un'emozione però non è funzionale, se c'è dolore va vissuto, se c'è gioia va vissuta tutta, se c'è paura anche quella va vissuta. Se blocchi si forma come una pietra, inizialmente piccola, poi, come il grano di sabbia nell'ostrica, comincia ad attrarre altri granelli, diventa sempre più pesante, diventa tensione, e quindi diventa dolore fisico, reale malessere, magari un ginocchio che ci molla o un'articolazione che si infiamma, o altro. Un'emozione bloccata è una bomba ad orologeria dentro di noi.
Ecco con questo non voglio dire che se-mi-incazzo-esco-e-meno-qualcuno o sono addolorata, allora prendo il megafono e urlo ai quattro venti il mio sentire, così non mi si forma tensione interiore, no, non è questo, è solo accettare di vivere dentro di sé ciò che accade, questo prima di poterci davvero mettere una croce sopra.

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.

La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s'è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
(Fernando Pessoa)

sabato 7 febbraio 2009

Mettere le mani avanti

Voglio riprendere un'idea di maus che, in questo suo post, redige il suo testamento biologico. Dato che se c'è una cosa che mi terrorizza è l'idea che qualcuno in nome di principi qualsiasi, di ragioni e pretesti politici, possa disporre della mia vita senza che io possa intervenire , metto anch'io le mani avanti

Facendo i dovuti scongiuri,

Farlocca Farlocchissima, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, dichiara:

se mai dovesse trovarsi confinata in un letto di ospedale, impossibilitata a comunicare, con il cervello danneggiato in modo irreversibile così da permanere in stato vegetativo per un periodo di tempo (fino a un massimo di qualche mese) , non vuole essere mantenuta in vita tramite alimentazione forzata o altro artificio terapeutico.

Chiede inoltre, le sia dato il diritto di andarsene da questo mondo, qualora ne avesse voglia, nel modo da lei scelto e senza che alcuno ne paghi le conseguenze se dovesse aiutarla dietro sua esplicita richiesta.*


Bene, ora mi sento più tranquilla e mi è possibile parlare d'altro.

*prometto che se si rispetteranno le mie volontà andrò in sogno, da medici, infermieri e paramedici, parenti e amici tutti, a regalare numeri da giocare al lotto. Se invece qualcuno dovesse impedire l'applicazione delle mie volontà, dato che prima o poi si muore tutti, o lo aspetto nell'al di là e lo/la gonfio o, se riesco ad andarmene prima io, lo/la visiterò in sogno dandogli i numeri sbagliati, gli tirerò le lenzuola, gli impesterò casa di puzze e gli manderò la finanza in azienda.

giovedì 5 febbraio 2009

Si fa quel che si può ....

Sono mesi che ho scattato questa foto, me la riguardo ogni tanto. Le mura diroccate da cui emerge la porta nuova, il contrasto tra il nuovo e il vecchio, tra l'aperto delle rovine e il chiuso della porta. E' l'allegoria di certi momenti complicati della vita: è successo qualcosa che ha provocato rovine dentro di noi. Un evento che lascia macerie dietro di sé, che richiede un'opera di ricostruzione interiore. Quasi tutti cominciamo a ricostruire dalla porta. Prima ancora di spazzar via i calcinacci, diamo una sistemata al muro esterno e montiamo una bella porta nuova, magari blindata, la chiudiamo e ci mettiamo al lavoro dietro di essa. Ci diciamo che è una scelta necessaria, per ricostruire devo recuperare le forze, non posso permettere a chiunque di entrare e venirmi a disturbare mentre faccio pulizia, lavoro di cazzuola e cemento, cerco di risistemare gli impianti. Magari qualche ben intenzionato vuol dare una mano e poi mi incasina l'impianto elettrico... Per carità! Fuori tutti!! Per un po' sto qui con la porta chiusa, per un po' dico. Certo così facendo rischio di tener fuori anche chi davvero può essermi d'aiuto, un bravo idraulico, un elettricista capace, il piastrellista, che io poi le piastrelle non le so nemmeno montare. Ma ormai ho montato la porta e l'ho chiusa, faccio da me. Per un po' ribadisco, ma il momento di aprire sembra non venire mai.
In effetti guardo questa foto e mi rivedo, tanti anni fa, nascosta tra le mie macerie, a contemplare lividi (metaforici e reali), a sistemare oggetti, a cercare di capire come evitare altri sfaceli di quella portata. La porta chiusa per mesi, nascosta là dietro a guardare ogni tanto dallo spioncino, così per vedere se passava qualcuno. Non aprivo, se bussavano non lasciavo entrare, si poteva anche parlare un attimo sulla soglia, poi via a richiudere di corsa. Dalla soglia della mia casa diroccata accettavo poche cose, qualche idea, qualche piccolo scambio, in fondo ero lì occupata a rivivere ogni giorno lo sfacelo. Una bella cretinata in effetti. Già ero stata male e ora in quell'isolamento totale, non facevo che rivivere il dolore spaccando il capello in quattro su tutti i passaggi del già-vissuto. Fuori da quella porta avevo chiuso tutti, ma sopratutto avevo chiuso una parte importante di me, una parte orgogliosa sì, che non voleva accettare i risultati miserabili ottenuti, che parlava appunto di risultati rifiutando il termine fallimento, che si infuriava per le macerie, negandole e chiamandole invece "rinnovamento" e ripeteva "te l'avevo detto io!", una parte enormemente vitale che tra una sfuriata e l'altra cercava soluzioni, nuove idee e grandi aperture, la parte coraggiosa. Poi, come per caso, un giorno ho socchiuso la porta, l'ho vista lì, che girava, sempre davanti alla porta, con aria vaga, facendo finta di niente. La guardavo perplessa, finché si è girata verso di me e ha detto:

Se qualcuno un giorno bussa alla tua porta,
dicendo che è un mio emissario,
non credergli, anche se sono io;
ché il mio orgoglio vanitoso non ammette
neanche che si bussi
alla porta irreale del cielo.

Ma se, ovviamente, senza che tu senta
bussare, vai ad aprire la porta
e trovi qualcuno come in attesa
di bussare, medita un poco. Quello è
il mio emissario e me e ciò che
di disperato il mio orgoglio ammette.

Apri a chi non bussa alla tua porta.

(Fernando Pessoa, Se qualcuno...)
E così ho aperto.

lunedì 2 febbraio 2009

Residui


Foto di Sandro B.

Produciamo scarti, residui del nostro vivere che abbandoniamo in luoghi improbabili. Sono oggetti che abbiamo desiderati, ottenuti e poi consumati fino a stancarcene o a loro consunzione. Cose che escono dal nostro quotidiano e vanno disperse in angoli della città poco frequentati. Là restano, come in attesa di essere riesumati, riaccolti tra gli umani che li hanno generati. Aspettano, il tempo passa, loro sono lì e lentamente diventano parte del paesaggio. Un acquedotto, una vecchia auto, un copertone, un pezzo di statua diventano coreografia urbana. Decadente, malinconica coreografia che ricorda il ballo naturale del nostro desiderio, che sempre, invariabilmente, prima cerca affannosamente, poi consuma e quindi abbandona. Per l'oggetto dimenticato l'attesa non è vana, qualcuno passa, occhi capaci guardano e sanno e colgono quel frammento di bellezza sospesa che nel fluire delle cose si è creato.

Nel mondo, solo con me stesso, mi lasciarono
gli dèi che decidono.
Niente posso contro di loro: ciò che mi danno
accetto senza obiezioni.
Così il grano si piega al vento e, quando
il vento cessa, si erge di nuovo.
(Fernando Pessoa da Odi di Ricardo Reis)