lunedì 26 gennaio 2009

Moltitudine

Ogni persona che incontriamo porta qualcosa. Non oggetti, ma possibilità. I contatti con altri umani, sopratutto se non superficiali, ci permettono di imparare qualcosa su noi stessi, ci aiutano, volontariamente o meno, a crescere, ad evolvere. Ogni persona che entra nella nostra vita parla a qualcosa che è in noi. Ogni incontro, e per incontro non intendo il signore a cui chiedo di passarmi lo zucchero al bar o la signora che mi chiede dove sia una strada, ogni incontro, dicevo, riflette qualcosa che è in noi, così come noi siamo specchio per qualche elemento dell'altro, c'è scambio di informazioni e di cose sottili che passano e non hanno un nome. Queste sono le più preziose. Piccoli elementi di un puzzle da un miliardo di pezzi, bit d'informazione olistica quasi, spunti, che, anche inconsapevolmente colti, ci accrescono ogni giorno un po' perché nutrono una nostra parte.
Noi siamo, dopotutto, una moltitudine. Non siamo uno/a, siamo esseri compositi; una piccola folla di parti, di personaggi e personalità assortite, abita in ognuno. Ogni parte ha un suo nome e una sua voce, un ruolo, un compito e uno scopo specifico e quasi mai noto a livello razionale. Da me, ad esempio, c'è un guerriero sempre teso, una bambina che danza e salta, una saggia creatura che si aggira parlando a sé stessa, e molti/e altri sempre impegnati a farsi notare. Una pletora di creature che cercano un accordo, un riconoscimento in vita di loro stesse e dei loro scopi, cercano una possibilità di dialogo armonico spesso negata dal loro stesso eccessivo vociare. Ognuna apprende, ognuna viene toccata da qualcuno. E volendo, accetta la lezione corrente. Ognuna ha qualcosa da dare. Ognuna va alimentata, curata, fatta crescere. A livello consapevole non ho la minima idea di cosa vogliano, so solo che devono volere qualcosa di buono, anche se agiscono maldestramente. Prima o poi bisognerà trovare il modo di far capire al guerriero che la tensione non è forza, anzi è debolezza. Alla bambina che danzare e saltare è cosa che si può fare anche da adulti, così magari si deciderà a crescere. O alla saggia creatura dire che, se parlasse con gli altri non farebbe danno, al contrario, smetterebbero di prenderla per matta. Con queste abbiamo trovato spunti recenti, ci lavoriamo, impariamo e prima o poi ce la faremo. Altre parti hanno già appreso da incontri fatti, dai molti splendidi esseri umani che ho incontrati. Splendidi anche quando proprio non si sentono tali. Tutti hanno nutrito a modo loro questa moltitudine. Che in coro (finalmente) ringrazia.

C'è però, qui da me, sopra a tutte, avvolgente come il guscio di un uovo, una parte, più potente, più enigmatica e consapevole di tutte le altre, una sorta di grande madre. Questa siede, riflette nella confusione, accoglie tutti, respinge tutti, protegge e attacca. Insomma contiene tutto e il contrario di tutto. A volte si allontana, a volte cerca quiete. Cerca le risorse per pacificare in armonia la vociante moltitudine. E' lei che cerca la sintesi. Lei sa come si ascolta il suono di una sola mano. Peccato che non voglia dirmelo....

pulisco la lente
degli occhiali - anche dalla parte
dell'occhio cieco
(haiku di Hino Sõjõ)

venerdì 23 gennaio 2009

Leggermente forse


A me capita, per dei periodi, di lavorare a ciclo continuo. Di trascorrer un fine settimana china davanti ad un computer, a parlare con qualcuno cercando di venire a capo di cose complesse. Non ti accorgi di nulla di ciò che accade intorno, tutto il tuo essere è focalizzato su di un qualcosa che divora tutta l'attenzione. E' una bella sensazione. Diventi leggero/a, non appartieni più agli affanni quotidiani, sei altrove, in un mondo in cui stai sempre bene. La testa funziona, nessuno dei pensieri estranianti, dolorosi, nostalgici, ma anche allegri e gratificanti, che, in condizioni normali ti accompagnano, ha spazio per intrufolarsi. Si crea un'atmosfera rara, nella quale esisti solo tu, il lavoro da fare e l'amico con cui lo stai facendo. Non può essere solo un collega, deve essere anche un amico, se no quel senso di ritegno che hai con "l'estraneo", non permette al pensiero di fluire liberamente e a quell'atmosfera particolare di realizzarsi.
Vai avanti così, a testa bassa, avvolgendoti in ciò che fai. Non senti la fatica se non quando cominci, dopo molte ore, a sbagliare cose elementari. Allora sai che bisogna fermarsi. Ti accorgi che le gambe chiedono imperiosamente movimento. Devi alzarti dalla sedia, non puoi più stare ferma. L'altro è con te, sintonizzato. Così, quasi senza parlare, si esce e si comincia a camminare. In silenzio all'inizio. Ci vuole un po' per riprendere contatto con il mondo. E' un'ora deserta per quella città del sud. Poca gente per le strade. Cammini e cominci a parlare, a dissertare di nulla, perché in quel momento qualunque cosa è nulla. C'è spazio solo per la leggerezza che finalmente ti concedi in pieno. Anche i pensieri malinconici sono diventati leggeri. Cammini, ti guardi un po' intorno, cogli il bello di ciò che c'è, non chiedi altro, non vuoi essere altrove. E a suo tempo, quando è il momento, e arriva presto, rientri, torni dov'eri, in quel mondo in cui tutto, alla fine, funziona come dovrebbe.


Lontano da me in me esisto
fuori da chi io sono,
l'ombra e il movimento in cui consisto.
(Fernando Pessoa)

martedì 20 gennaio 2009

Al sole


Foto di Sandro B.

Guardo questa foto di Sandro. Oggi mi emoziona. Quella sedia lì nel sole, mi da un senso di pace, di quiete. Mi vorrei sedere lì, a fare il gatto anzi la gatta (non sbagliamoci sul genere!), a godermi il calore del sole sul pelo appena arruffato dal vento. Su quella sedia un po' sghemba, con la paglia sfilacciata dal mio rifarmi le unghie. Immagino una giornata d'inverno in cui splende il sole. La temperatura fresca, ma al sole si sta bene. Giro un po' su me stessa, come a verificare la consistenza della paglia, la pulizia del punto, un rituale di accoccolamento necessario per trovare pace, per appropriarmi del luogo. Poi mi siedo e mi acciambello portando il muso sulle zampe già piegate, la coda a scaldarmi il naso, socchiudo gli occhi per filtrare la luce e proteggerli dal vento. Resto là seduta per qualche tempo.
Una nuvola copre il sole, la temperatura scende. Meglio entrare allora. Mi alzo, stendo le zampe anteriori e inarco la schiena stirando i muscoli con la coda che punta verso l'alto. Alzo una zampa e la stiro, alzo l'altra e stiro anche quella. Con uno sbadiglio arruffo il pelo, poi salto giù e mi avvio verso casa regina incontrastata di un momento di pace.

Gatto che giochi per via
come se fosse il tuo letto,
invidio la sorte che è tua,
ché neppur sorte si chiama.

Buon servo di leggi fatali
che reggono i sassi e le genti,
hai istinti generali,
senti solo quel che senti;

sei felice perché sei come sei,
il tuo nulla è tutto tuo.
Io mi vedo e non mi ho,
mi conosco, e non sono io.
(Fernando Pessoa)

lunedì 19 gennaio 2009

Illusioni, ad esempio I




Guardo il gabbiano, è lì sulla riva del fiume, è solo non nel solito stormo. Osserva l'acqua scorrere, i rifiuti trasportati dalla corrente. Lo guardo e immagino i suoi pensieri, lo vedo come un novello gabbiano Jonathan Livingston, isolato cercatore di verità che, escluso dallo stormo, fissa l'acqua ponendosi infinite domande, trovando risposte profonde, per poi librarsi alto nel cielo in un volo perfetto.
Ma, il gabbiano in questione si gira, fa quattro passetti goffi e ficca la testa in un mucchio di spazzatura lì vicino ingozzandosi di lordure varie. Ogni poesia è andata, ogni bellezza struggente dissolta dal gesto terreno e un po' schifoso dell'animale. Che delusione! che faccio? gli tiro il collo?
Sento già il coro: "Nooo, povera bestia! che male ha fatto è solo un gabbiano..." in effetti, perché me la devo prendere con lui per non esser come IO ho pensato che fosse? Certo mi ha rovinato il mio bel momento poetico, ma lui che centra?
Nel post precedente a questo ho parlato della fine dell'amore, dell'illusione dell'innamoramento e di quanta rabbia scatena quando viene spezzata. Era un esempio. Tutte le nostre illusioni quando vengono spezzate dallo scontro con la realtà provocano frustrazione, qualche volta ci sentiamo cretini, qualche volta ci incazziamo, altre ridiamo. La mia soluzione preferita è ovviamente l'ultima, ma so bene che se l'illusione spezzata era di quelle per noi fondanti, non ci viene da ridere affatto. Una delle peggiori in tal senso è la fine di un'amicizia. E' quasi peggio di quando finisce un amore, perché stai male altrettanto ma non puoi piangere sulla spalla di nessuno. Non è un dolore contemplato e, di solito, ti vergogni a morte a parlarne. Sì perchè se un'amicizia finisce brutalmente (altrimenti non staresti male), molto spesso, quasi sempre direi, ti rendi conto improvvisamente di quante cose dell'altro/a ti sei rifiutato di vedere, e magari non le hai volute vedere per metà della tua vita. Stai lì, cominci a scoprire le volte che quello/a ha sparso immondizia su di te senza nemmeno te ne accorgessi, vedi di colpo che certi avvisi, dati da altri, non erano maldicenze o opinioni fondate sul nulla mentre tu ti dicevi "ma no io lo/la conosco bene non è come dice tizio/a", vedi la persona davvero per la prima volta, e sì ti parte la frustrazione, ma sopratutto, ti senti un'idiota. Gli amici ce li scegliamo, non ce li da la natura come i fratelli (e su questo c'è chi la pensa diversamente), non possiamo neppure ufficialmente invocare la cecità da innamoramento. Non è prevista. E allora piano piano ci sale come un dolore al centro del petto, una cosa terribile, nera e rossa, che divora tutto il nostro raziocinio, un'ira tale che, se dovessimo incontrare l'examico/a, scateneremmo una violenza tipo dalla Cina con furore che Bruce Lee sembrerebbe nessuno al nostro confronto. Ce ne andiamo in giro così, con questa cosa dentro che non può essere neanche raccontata per pura vergogna ed autocensura.

Poi un giorno guardiamo un gabbiano, uno stupido gabbiano che sta lì e fa solo il gabbiano, a dispetto del ruolo mirabile che gli abbiamo appena, poeticamente, cucito addosso. E ci arriva un pensiero: "ma con chi sono così incazzata?" e l'orrida vocina interna risponde: "con te medesima farloccuccia mia, con te medesima".

Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,
il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola
come una trappola da sacrificio,
è quindi venuto il momento di cantare
una esequie al passato.

(Alda Merini, da "La Terra Santa")*

*dedicata a coloro che hanno un passato da chiudere

mercoledì 14 gennaio 2009

Degli sgambetti e dell'essere adulti*


Foto di Sandro B.
Mi sta capitando sempre più spesso di parlare, argomentare e discutere su di un tema un po' speciale: le reazioni violente, in particolare, nelle interazioni tra umani. Mi spiego. A volte le persone, la vita, sembrano intervenire su di noi "a gamba tesa", ci fanno lo sgambetto o così a noi pare. Questo tipo di eventi, mediamente, provoca dolore, frustrazione e sopratutto rabbia.
Molte delle persone con cui mi è capitato di "argomentare" sul tema sostengono il loro diritto alla reazione violenta, ad incazzarsi, a mandare a.. o di qua e di là chi "provoca" il sentimento di dolore, frustrazione o malessere con il suo sgambetto. Incitano me, in situazioni simili alle loro, a reagire rompendo gambe, oggetti o quant'altro capita. Io, però, non sono quasi mai d'accordo. E' vero, anche a me è successo di provare rabbia e furore e desiderio di vendetta per degli sgambetti o simili, ma più passa il tempo e meno sono le situazioni che classifico come "sgambetti" e a cui mi sembra giustificato reagire con rabbia.
Prendiamo uno dei casi sui quali ho discusso di più con amiche e amici. La situazione in cui ci si innamora, si sale sul carro in due e l'altro, ad un certo punto, dichiara di voler scendere. Ora se questo ipotetico altro non ha millantato amore eterno, non ha giurato fedeltà fino alla morte, non ti ha fatto indebitare fino agli occhi per traslocare/aiutarlo/fare-il-giro-del-mondo, e poi neanche restituisce celermente il denaro, ma è semplicemente salito sul carro dicendo "va bene vengo, stiamo a vedere che succede" e poi scende, magari anche rapidamente, cosa c'è da incazzarsi con furia ed ira funesta?
L'innamoramento è, quasi sempre e sopratutto se molto repentino, una nostra personale costruzione, un nostro desiderio di sederci sulla nuvoletta rosa e lasciarci andare, sentirci come bimbi ed affidare tutto di noi a qualcuno come se avessimo 3 anni. Dato che quelli con cui parlo ,di solito, di anni ne hanno più di 40, questo modo di fare mi sembra leggermente fuori tempo. Innamorarsi da adulti è sì salire sulla nuvoletta rosa, ma ricordando che di nuvoletta trattasi e non di realtà assoluta. Se poi, l'altro, molto prudentemente, dice "calma però, ognuno ha i suoi tempi e la sua storia appresso" a magior ragione la nuvoletta è di vapore. Per darle consistenza bisogna avere pazienza e consapevolezza, sapere che può dissolversi in ogni momento, che ha degli alti e bassi, che a volte da rosa si fa nera. Così se la mia nuvoletta si dissolve, non mi incazzo, non posso proprio. Posso essere triste, anche molto, posso non condividere le motivazioni e le ragioni addotte per andar via, per non partecipare più (dicevasi al post precedente che ci vuole coraggio in certe cose), ma non incazzata. Anzi, riconosco all'altro il sacro santo diritto (quasi dovere) di ritirarsi se sta scomodo, se la mia (e sottolineo mia) costruzione non gli piace, la trova stretta o quant'altro, se non vuole modificarla insieme facendola diventare nostra, è cosa buona e giusta che se ne vada.
Certo se per andarsene prende il caterpillar e mi passa sopra, appena raccolgo i miei cocci e li rincollo, lo vado a cercare per mandarlo all'ospedale (vedasi post vecchi sull'excompagno per l'uso del caterpillar in questi casi, giuro che però non l'ho mandato all'ospedale, ma solo per paura delle conseguenze penali). Se così non è, se con tenerezza e anche dolore, scende, lo rispetto e continuo a volergli bene, ad essergli grata per ciò che ci si è scambiato, lascio aperta una porta, magari un portoncino, per potersi riparlare/trovare prima o poi.
Insomma gli sgambetti ci sembrano spesso tali perché distruggono una nostra proiezione, un nostro sogno, un'idea preconcetta del reale che con quest'ultimo non ha niente a che fare.

Ecco guarda caso quando dico queste cose un sacco di gente si incazza con me...

Nella strada piena di sole vago ci sono case immobili e gente che cammina.
Una tristezza piena di terrore mi gela.
Presento un avvenimento dall'altra parte delle frontiere e dei movimenti.

No, no, questo no!
Tutto, salvo sapere cos'è il Mistero!
Superficie dell'Universo, oh Palpebre Calate,
non vi sollevate mai!
Deve essere insopportabile lo sguardo della Verità Finale!

Lasciatemi vivere senza sapere niente, e morire senza venire a sapere niente!
La ragione che ci sia essere, che ci siano esseri, che ci sia tutto,
deve portare a una follia più grande degli spazi
fra le anime e le stelle.

No, non la verità! Lasciatemi queste case, questa gente,
proprio così, senza nient'altro, solo queste case e questa gente...
Quale alito orribile e freddo mi tocca gli occhi chiusi?
Non li voglio aprire per il vivere! Oh Verità, scordati di me!
(Fernando Pessoa Demogorgone)

*dedicato ad M. che mai leggerà questo post, che tanto me ne ha voluto e che, su queste cose, tanto si è incazzata senza mai capirci un tubo

lunedì 12 gennaio 2009

Estetica della malinconia


C'è della bellezza nella malinconia, ce n'è nel dolore. La stessa bellezza che trovi in certe giornate nuvolose e nebbiose in cui il mondo si nasconde, la realtà è avvolta in una cortina grigia e morbida, assume colori indistinti. Ti continui a muovere, a dedicarti alle tue attività, se puoi scegli le più allegre che, attraverso la loro essenza, diradano a tratti la nube. Crei una tela bianca sulla quale la tristezza dipinge, anzi, schizza a carboncino i contorni di ciò che vedi. Sfuma i contorni usando come spatola qualche lacrima, poche però, se no si cancella tutto. Se la malinconia è poi generata dal ricordo di cose belle, quegli schizzi diventano poetici, romantici e vale la pena guardarli, conservarli da qualche parte nella memoria per non perdere il senso di ciò che li ha generati. La bellezza che vedi la conosci, è quella delle cose che sai finiranno, che passano e lasciano sapori e odori diversi dal solito nei ricordi. Sai che come la nebbia, ad un certo punto del giorno, anche la tristezza andrà via. Sai anche che ogni momento di dolore, di tristezza, di malinconia, se lo vuoi, porta con sé una possibilità di apprendimento, di crescita a volte molto intensa. Certi dolori ci vorranno anni per metabolizzarli del tutto, altri, molto più leggeri, meno basati su radici antiche, vanno via rapidamente, sopratutto se nessuno ha infierito, se il destino benevolo, li ha causati con gentilezza, quasi con affetto, sopratutto con rispetto della tua e altrui anima. Tutti però portano messaggi e insegnamenti, estremamente preziosi. Se non avessi mai sofferto in vita mia, probabilmente, non sarei neppure mai stata davvero felice.
A pensarci bene, se trovi bellezza nella tristezza, nella malinconia e persino nel dolore, sei in una condizione nella quale "non ti ammazza più niente", sei sostanzialmente inattaccabile. Non che tu non soffra o non stia più male, no questo no, ma è cambiata la qualità del tuo sentire. Non hai più paura.
E allora quando non ti fa più paura neanche il dolore, quando la malinconia ha una sua bellezza, sai che sei vivo/a, sai che se oggi piangi, ieri hai riso e domani non importa.

per ogni istante estatico
dobbiamo pagare un'angoscia in netta e tremante
proporzione all'estasi.

per ciascuna ora amata
crudeli spiccioli d'anni -
centesimi amaramente contesi -
e forzieri colmi di lacrime!
(Emily Dickinson)*

*citando A.: dedicata a chi, con coraggio, si innamora

sabato 10 gennaio 2009

Del potere curativo dei turnedos alla rossini


A volte le cose vanno in direzioni dolorose. La paura vince sul coraggio, l'immobilità sul moto, l'acqua del fiume della vita incontra un ostacolo che l'arresta. Si crea uno stagno e qualcuno ci cade. Quelle acque ferme sono fredde, scure e non generano. Cadiamo in questi stagni che creiamo noi, ci facciamo catturare dalla paura, dal timore di cambiare, dai luoghi più asfittici della nostra anima, ci facciamo imprigionare. Rifiutiamo di vivere ciò che arriva ed è prezioso pur di non correre rischi o di modificare qualcosa.
Personalmente ho combattuto strenuamente questi momenti, i miei momenti così, vedendoli come abissi, come mostri che mi tarpavano le ali, come momenti di infinita vigliaccheria che, quindi, da un certo momento in poi, ho cercato di superare. Io non scappo quasi mai. Preferisco affrontare tutto quello che la vita mi da e cerco di viverlo fino a reale esaurimento, fino a quando sento che tutte le possibilità sono state esplorate e davvero non c'è più niente da dire o fare. In passato cercavo, disperatamente e strenuamente, di convincere chi avevo intorno e cadeva nello stagno, ad uscirne. Ci ho messo l'anima in tante occasioni, mi ci sono scaricata le batterie di riserva fino a restare senza forze. Poi, sono invecchiata. Così, ora, se qualcuno che mi è caro cade in un suo stagno, anche se questo mi fa male, mi addolora, lo lascio lì. Non combatto battaglie, non cerco di trainare chi non lo vuole, magari aspetto, per un po', sulla riva. Questi stagni non sono eterni, il fiume preme e la vita continua. La bellezza del vivere crea dei salvagente, lo fa da sé, senza che io mi affanni.
Certo per un po' chi è nello stagno lo perdi. E' là nell'acqua ferma, non vuole scorrere e quindi non può camminare con te, e questo addolora. Ma se sei nel fiume c'è sempre qualcosa che scorre con te, che ti felicita, ti accoglie. Come una cena con amici, qualcuno più caro di altri, che magari cucina, cucina bene e sa cosa tu puoi o non puoi mangiare, e adatta le ricette e ti fa i tournedos alla rossini e l'antipasto e la zuppetta di farro e il millefoglie alla frutta destrutturato... e così anche la tristezza va e la vita scorre.


giovedì 8 gennaio 2009

Geometrie

Foto di Sandro B.

Ci sono giorni che si sviluppano con precisione geometrica. Fai una lista mentale delle cose da fare, parti e tutto prende il suo posto. Luci e ombre si muovono dove dovrebbero, le cose da fare si fanno, ogni cosa va al suo posto. Alla fine della giornata la lista è stata completata eppure non ti senti soddisfatto/a. Che abilità hai messo in moto? Quali ostacoli hai superato? La competizione interna con te stesso segna un pareggio.
Dall'altro lato della scala ci sono i giorni in cui parti con una lista di cose da fare, magari anche scritta, perché se no ti scordi qualcosa che è troppo lunga, e non c'è nulla che vada al suo posto. Il mondo intorno sembra sviluppare una inspiegabile malevolenza nei tuoi confronti, la Legge di Murphy domina ogni evento, piove anche, a catinelle, e tu sei in giro in moto o a piedi, dopo qualche ora sei bagnato/a, stanco/a, inveisci contro l'universo. La lista è lunga, la battaglia ardua, quasi disperata. Ti guardi intorno e vedi solo immani colonne di indifferenza che ti sovrastano, la luce scende di traverso, ti illumina ed evidenzia la tua pochezza di fronte agli elementi. Tra quelle luci ed ombre evidentemente ostili, riesci a malapena a completare un paio di elementi della lista, magari anche un po' maldestramente, ma qualcosa porti comunque a casa. Arrivi così, varchi la soglia scuotendo l'acqua dai vestiti, ti togli le scarpe bagnate, ti cambi che l'acqua ha trovato vie misteriose per giungere ovunque, stacchi il telefono di casa, spegni il cellulare e sei finalmente felice. Ti sembra di esserti superato/a, in fondo sei ancora intero.

Quasi anonima sorridi
e il sole indora i tuoi capelli.
Perché per essere felici
È necessario non saperlo?
(Fernando Pessoa)

domenica 4 gennaio 2009

Inverno


Per me l'inverno è sempre stato la neve. Eppure ne vedo poca dalle mie parti, a Roma una nevicata che sia una nevicata non si vede da più di vent'anni. Nel mio immaginario però, l'inverno è bianco, silenzio, freddo. Luoghi comuni, certamente, ma anche ricordi di un tempo lontanissimo in cui ero una bambina che viveva nella periferia di Boston (USA) e che uscendo da casa, certe mattine, trovava un muro bianco e soffice più alto di lei. Un tempo in cui la bambina in questione guardava gli scoiattoli in giardino e pensava fossero folletti, un tempo di favole ben raccontate la sera prima di andare a dormire da una mamma che c'era sempre. Un tempo di sicurezza e di eventi unici, come l'arrivo di una sorella. E così via percorrendo quell'amarcord infantile che è cosa speciale proprio perché riguarda un tempo ormai lontanissimo.
Al presente l'inverno vero è spesso grigio, stancante, comunque freddo; pieno di doveri, di attività, di luoghi chiusi e di interminabili giornate piovose. La mancanza di luce deprime e i pensieri sull'oggi e il domani trascinano via. E' una stagione di ripensamento, in cui si cerca spesso di far quadrare il bilancio di una vita non sempre ben spesa. Poi, a volte, una sosta. L'inverno si accende, si colora di bianco, si veste di abiti inusuali che teneva nascosti ad una manciata di chilometri. Allora la macchina del tempo mi riporta ai folletti della neve, al bianco assoluto, al calore interno che è sempre lì, tenuto in vita dagli amici, dalla bellezza dei luoghi e dall'amore per la vita che, anche oggi, come ieri, mi ha fatto un regalo.

giovedì 1 gennaio 2009

Ent


C'è un luogo (in realtà ce n'è più d'uno) a Roma in cui vivono gli Ent. Gli alberi nonno come li chiama gillipixel. Per iniziare l'anno sono andata a trovarli. A camminare accanto ai loro rami evocando folletti e maghi, sotto una pioggia leggera.


Pazienti osservano il nostro vagare d'inizio anno. Ci guardano smaltire l'alcool e l'eccesso di cibo con il quale abbiamo esorcizzato la paura di carestia che ci ha portato nel 2009. Osservano in silenzio i rari passanti del primo gennaio.


Hanno radici profonde, ma so che possono in qualunque momento alzarsi e andarsene. Come un vecchio maestro stanco di ripetere sempre le stesse cose. Mentre noi, scolaresca sempre infantile, continuiamo ad agitarci scompostamente.

Li immagino chiamarsi tra loro, commentare, con voce inudibile. Li guardo e mi chiedo se cambiando prospettiva potrei anch'io vedere il mondo come loro.