sabato 27 giugno 2009

Visioni americane 3

Di nuovo prendo il ferry per New York. Di nuovo arrivo dal mare nella città che preferisco dopo Roma. Arrivo e cammino per ore. La mostra per il centenario di Francis Bacon al Metropolitan (m e r a v i g l i o s a, ecco se vi piace Bacon ovviamente), poi un'ora immersa nell'arte orientale con nelle orecchie musica barocca (lo so fa radical-chic-pretenziosa ma ditemi se non è una cosa bellissima), poi si cammina con le nuove amiche, ci si perde per le strade di Downtown, ci si riempiono gli occhi di visioni riprese da innumerevoli telefilm, dall'iconografia classica newyorchese. Qui ci potrei tornare a vivere, lo penso ogni volta che ci vengo. Qui mi potrei trasferire e stare a lungo, con il genius loci di New York ci vado d'accordo. Non è stato un colpo di fulmine. Quando arrivai qui negli anni '90 odiai il cemento, odiai il freddo e il casino, mi sentii infelice, divorata, sola anche se non lo ero fisicamente. Poi, come a volte accade con i grandi amori, qualcosa cominciò a cambiare. Dopo qualche mese mi resi conto che stavo prendendomi una cotta per quelle strade, per i mercatini, per il casino, persino la metropolitana mi stava facendo innamorare. Ora, a distanza di 18 anni, posso ben dichiarare che questo, tra me e il genius loci della Big Apple, è un grande amore. Arrivo e sorrido, non importa cosa mi stia succedendo in quel momento, torno tra le braccia di un amante. Anche oggi, anche se il palmare di botto si connette ad una rete wifi e mi scarica tre email di rotture di palle lavorative (mannaggia a me potevo spegnerlo!!!), nemmeno quelle rovinano il sorriso.
Verso sera è il momento dell'addio. Tra poco partiamo, ci aspetta un road trip verso sud con mete non completamente precisate. Noi gruppetto di vecchi fricchettoni, nonostante le buone riuscite di carriera, non riusciamo mai a programmare a dovere quando si tratta di tempo libero, ci buttiamo sulla strada ("let's hit the road on Saturday heading South") e poi vediamo. Salgo sul ferry per tornare in New Jersey, alzo gli occhi e vedo un turbine di nuvole nere che si addensano su Manhattan, sembrano uscite da un film catastrofico, uno di quelli in cui dal mega-turbine nero esce lo zampone dell'alieno perfido e aggressivo che ucciderà tutti e lancerà camion contro i grattacieli e magari anche qualche nave di grosso tonnellaggio. Lo spettacolo è straordinario, anche se un vago senso di inquietudine aleggia, dopo tutto mi aspetta un'ora di mare prima di toccare terra di nuovo. La corsa comincia, il ferry va a massima velocità mentre le nuvole ci inseguono, corre, corre, ma a pochi metri dalla prima fermata arriva la tempesta. Un muro d'acqua ci investe, il vento quasi sbatte la nave contro il molo (ed è bella grossa). Attraccano. Restiamo là in attesa che si calmi, il vento urla intorno, dato che mi sento al sicuro mi godo lo spettacolo. Poi si riparte, si attracca di nuovo, piove poco ora, scendo. Mi avvio alla macchina che mi hanno prestato e vado ad imboccare l'unica strada che conosco per tornare a casa... ecco è chiusa causa alberi caduti. Ora concentratevi, immaginate la Farlocca in macchina, sotto la pioggia, in un luogo in cui non conosce le strade e provate a indovinare quanto ci ha messo ad inventarsi un modo per tornare a casa che dista si e no 15km.... un'ora e quarantacinque minuti e senza smadonnare.

giovedì 25 giugno 2009

Visioni americane 2


Le mie fughe americane creano sempre spunti poetici e felicitanti. Spesso non ho parole per raccontare questo vissuto, una piatta cronaca del "vado lì, faccio questo e quello", non rende l'idea di cosa davvero sto vivendo. Allontanarmi dal mio mondo usuale, vivere in una casa piena di gente, guardare una natura diversa, visi e situazioni che sono tra il familiare e il totalmente estraneo, tutto questo porta un senso di apertura, di aria che circola, di vita che scorre.
Per raccontare mi avvalgo sempre delle immagini, ma appena arrivata la macchina fotografica è morta, per fortuna il telefono fa foto semi-decenti e qualche appunto è ancora possibile. Così posso raccontare della lampada con rullante annesso, del ferry che mi porta da Red Bank NJ a New York in un giorno piovoso, con un cielo che parla di tempesta e la promessa di una giornata newyorchese fatta di strade. Arrivo dall'acqua, passando sotto al Verrazzano bridge, sfiorando navi grandi e piccole, mentre dall'acqua sorgono, crescono, i grattacieli di downtown. Penso a dei progetti che sto seguendo, penso ai porti, ai luoghi d'approdo, alla sospensione in cui sei finché non metti piede a terra. Ai piedi che ti portano in giro, alle ore (tante) che trascorri camminando. Agli incontri che faccio, sempre a loro modo straordinari, perché ognuno di noi ha in sé una nota di unicità che lo rende straordinario, anche se non lo sa. Penso a chi ho lasciato dall'altra parte dell'oceano, alle persone che amo e che vorrei qui con me. E allora progetto un altro viaggio mentre cammino, immagino me, sorella, cognato e nipotame a far casino per la città. Sì questo si può fare... magari presto. E poi continuo a camminare, ascolto la musica degli artisti di strada, vado a perdermi tra i libri di Strand, esco con un fardello pesantissimo di storie e saggi. Cammino, cammino e ancora cammino e altre persone vengono a galla, altri con cui vorresti condividere questi momenti, ma non ha senso il pensarlo perché questi momenti sono così perché sei sola a camminare e con altri sarebbero altro.
E poi condividi il vagare newyorchese con quella bellissima persona conosciuta in aereo, quegli incontri nei quali dopo un po' che parli, ti chiedi se quella non sia tua sorella anche lei. E in fondo è proprio così, almeno oggi.


martedì 23 giugno 2009

Visioni americane 1


Asbury park New Jersey
Me la compro, ecco non so se posso resistere, la voglio, la voglio la voglio....

sabato 20 giugno 2009

Vacanza


Questo blog vola via per un po'.

Si avvicina il compleanno della Farlocca e quindi lei si regala una bella fuga. Fantasia e internet permettendo non si esclude la possibilità di continuare ad ammannirvi le scemenze farlocchesche. Ecco ora vado perché anche se Pessoa ha ragione io è meglio che mi sposti da qui.

Viaggiare? Per viaggiare basta esistere.
(Fernando Pessoa)

mercoledì 17 giugno 2009

Traiettorie



I percorsi della storia personale di ognuno di noi, nella mia testa di pseudo-matematico, sono rappresentabili come delle realizzazioni di un processo aleatorio. Mi spiego. Un processo aleatorio è una cosa che descrive, tra le altre, delle sequenze di eventi che si verificano nel tempo. Potenzialmente ne può descrivere infinite, ognuna viene chiamata traiettoria, quella che osservo la chiamo realizzazione. La vita di un essere vivente all'inizio è il primo passo di una di queste traiettorie, è il primo passo che possiamo osservare, il primo istante della realizzazione costituita da un numero finito di eventi; una traiettoria, tra le infinite possibili, che finisce (forse) il giorno in cui l'essere vivente muore. Ora prendiamo un essere umano, la qualità della sua vita dipende da un numero elevatissimo di fattori, la sua traiettoria può finire ovunque o quasi a seconda di ciò in cui incappa nel corso del suo vivere. Può finire in quasi ogni parte dello spazio delle traiettorie, non proprio ovunque. Esistono regioni in cui è quasi impossibile che si vada perché hanno probabilità bassissima o pari zero. Io potevo finire tossicodipendente e crepare sotto a un ponte molto presto, non era una zona a probabilità nulla. Oppure potevo diventare professore ordinario a 30 anni o commessa di negozio per tutta la vita con quattro figli a carico e marito ubriacone. Non potevo diventare una contadina columbiana però, sono nata a Roma e non sono india. In effetti ognuno di noi ha infinite storie alternative possibili*.
L'idea di storia alternativa, a me è sempre servita per sentirmi fortunata. Eh sì, perché là dove il diventare professore ordinario a 30 anni è, nel mio spazio delle traiettorie, un elemento possibile ma a bassissima probabilità, quella in cui finivo tossica e morta giovane non lo è. Così come pure quella in cui facevo un lavoro di merda con 4 figli sul groppone e marito manesco. Invece sono qui, scrivo, leggo poesie, mi innamoro di pezzi di matematica, faccio un lavoro che adoro e ogni tanto mi innamoro pure di uomini più o meno decenti (ehm per ora più meno che più). Vivo chiedendomi spesso come sia fatto questo processo aleatorio che mi è caratteristico. Per ora l'unica cosa che ho capito è che è un processo a memoria lunga, molto, molto lunga, di certo non è un processo markoviano (di cui parlavo qui). Ogni gesto, ogni pensiero del giorno è condizionato da tutta la storia precedente... ai voglia a dargli di psicanalisi e meditazione e cura dell'anima (deli mortacci....), questo disgraziato del mio personale processo non scorda mai niente (a parte le chiavi di casa in ufficio o quelle del motorino chissà dove, ma se mi fidanzassi con un fabbro avrei risolto). Si porta dietro tutto, se non nella memoria cosciente, in quella profonda, quella parte del ricordare che si manifesta poi nel corpo, nelle sue tensioni automatiche davanti alle circostanze. E allora non mi resta che guardare alle storie alternative, cercare di immaginarle crogiolandomi felicemente nella realizzazione attuale. Una parte di me, cerca di percepire ciò che segue, ascolta il rumore del passo successivo senza mai afferrarlo finché quello non diventa oggi.

Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
È la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.

E solo se, mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando,
tace la voce, e solo c'è il mare.

(Fernando Pessoa - Isole fortunate)

*In realtà per definire questa idea di storia personale parto da un bel libro che, tra le tante cose, parla anche di questo (Giocati dal Caso di Nassim Nicholas Taleb), è scritto bene, è semplice da capire ed è matematicamente molto poetico.

venerdì 12 giugno 2009

Sospensione

E' da un po' di tempo che mi sento sospesa. Da qualche anno tutto ciò che ritenevo essere un punto di riferimento non lo è più, o a perso di senso, o è semplicemente sparito dalla mia vita. Il senso di essere sospesa ha poi raggiunto il suo culmine proprio in questo periodo. Chissà magari aumenterà ancora, ma più di così mi sembra improbabile. Mi sento ormai come un pezzetto di nuvola in cielo, o una goccia d'acqua appena dissoltasi nell'oceano. Questo stato non è negativo, è difficile sì, ma contiene in sé un senso di progresso e movimento che non ho mai sperimentato prima in vita mia. Non c'è esaltazione, non c'è disperazione, sentimenti più morbidi accompagnano la nuvola che vaga. Non ho idea di quale possa essere il punto d'arrivo, non so se ce ne sia uno. Sto semplicemente cercando di vivere.
Oggi sono perplesso,
come chi ha pensato
e creduto
e dimenticato.
(Fernando Pessoa)

martedì 9 giugno 2009

Della memoria



Una delle caratteristiche del mio amore per la matematica è che è sempre presente ed immanente. Non lo mostro, non vado in giro facendone bandiera, anzi, di solito lo nascondo con un certo pudore. Ma qui sono sul mio blog e allora, passa un giorno, ne passano due, tiè è passato un anno intero, e allora posso pure osare. Spudoratamente lo dichiaro e ne racconto anche gli aspetti più intimi.
Come ho già detto un paio di post fa dalla formalizzazione matematica ho spesso tratto immagini, paralleli, storie intere. Oggi vi parlo di un oggetto abbastanza particolare: il Processo markoviano. Questo oggetto è un modo di rappresentare delle sequenze di eventi che cambiano stato con una modalità particolare, la probabilità di transizione che determina il passaggio da uno stato di sistema ad un altro dipende unicamente dallo stato di sistema immediatamente precedente e non dal come si è giunti a tale stato. In sostanza è un oggetto che non si ricorda mai da dove è partito per arrivare dove sta, ha una memoria a breve termine e basta. Lo trovo bellissimo. Intanto perché mi fa pensare a me e alla mia amica a. quando andiamo in giro senza meta. Sopratutto mi evoca me e lei quando, camminando qua e là, ci immergiamo in qualche tema e pontifichiamo in libero brain storming. Arriviamo ad una qualche conclusione che ci appare, in quel momento, brillantissima. Quasi immancabilmente, dopo l'attimo di felice illuminazione, ci guardiamo e sorge spontanea una domanda: "ma come siamo arrivate a questo punto?" e nessuna delle due sa rispondere. Analoga conversazione-situazione si verifica a volte quando andiamo in giro in macchina arrivando in luoghi sconosciuti.
In secondo luogo: provate a immaginare come sarebbe la vostra vita se non vi ricordaste delle esperienze accumulate, se foste in grado di ricordare solo ciò che è accaduto, diciamo, il giorno prima (prendiamo come un'unità temporale le 24 ore), se la vostra memoria funzionasse come un processo di Markov. Pensate a quel giorno terribile in cui la vostra amata o il vostro amato vi piantò per quello (o quella) bello e figo (o bella e figa) che stava nella scuola di fronte (o nella classe accanto), pensate ai mesi di lacrime e tormento che vi hanno convinto che non vale la pena innamorarsi totalmente (cosa che si fa solo a 15 anni e dintorni). Pensate se, dopo tre giorni, non vi foste manco più ricordati che c'era qualcosa su cui piangere, se il dolore fosse scomparso del tutto e voi, come l'innocente matto dei tarocchi, vi foste semplicemente rimessi in moto e innamorati di qualcun altro con analogo trasporto. Mica male no? Su di un'idea simile hanno anche costruito un film molto carino che in inglese si chiamava Eternal Sunshine of the Spotless Mind.
Certo ci sarebbe qualche inconveniente. Ad esempio, vado in vacanza una settimana da sola. Torno a Roma. Devo leggere sulla carta d'identità dove abito e se non l'ho rifatta dopo l'ultimo cambio di residenza rischio di dormire in albergo. Devo sperare di essermi scritta da qualche parte dove lavoro e che lavoro faccio nonché avere una serie di appunti sul come farlo. Poi vado a lavorare e nessuno si ricorda di me, devo ripresentarmi a tutti, ricostruire da zero tutte le relazioni (questa non è male dopotutto). Che diamine sono stata via un'intera settimana!! O peggio ancora, da piccola mi mandano in colonia, non ci si telefona con mamma e babbo per qualche giorno. Alla fine della vacanza io non so più quali sono i miei genitori e loro non si ricordano neanche di avere una figlia... ecco questo può accadere anche senza la struttura markoviana della memoria, ma quella è un'altra storia.

sabato 6 giugno 2009

Finestre


Ultimamente qui ha regnato la malinconia. Ricordi, eventi recenti, tutto intorno spirano venti umidi, conditi di assenze e di elaborazioni difficili. Ma come sempre nella realtà e in quella farlocchesca in particolare, non esiste mai un unico colore. Non si sta mai nel buio assoluto o nella luce piena, c'è sempre, immancabilmente, una finestra che si apre da qualche parte che crea aria, crea contrasto e movimento. Sempre per quel che diceva mamma, intorno a me la commedia non si ferma. Così ci si ritrova alle 5 di mattina su di una terrazza a mangiare quaglie discutendo di copyright, discussione non esattamente coerente dato il tasso alcolico dei partecipanti e l'orario. Oppure, qualche giorno dopo, alle 4 di mattina a tirare moccoli per un allarme che, indefesso, andrà avanti fino alle 7 provocando desideri di vendetta e progetti su come trovare e poi menare il proprietario dell'auto. Quest'ultimo fatto poi, rende evidente l'esistenza di una mano suprema che agisce su di noi. Infatti, dopo attenta analisi, è stato possibile stabilire che tale evento aveva, come unico fine, di trasformare in magnifica sfida la giornata successiva, nella quale era assolutamente necessario ed imperativo essere brillanti, efficaci e perspicaci. I due neuroni ancora vivi dopo il trattamento, hanno mostrato un'insperata capacità d'azione, evitandomi di sembrare del tutto lobotomizzata ma solo leggermente rincoglionita. Cosa che alcune anime caritatevoli si sono premurati di farmi notare. Poi abbiamo una discreta lista di eventi effimeri ed interessanti, come un invito per domenica sera (il 7 giugno) ad andare alla sede del PD per porgere eventuali (assai probabili) condoglianze, o a ballare il valzer nel corridoio dell'ufficio per celebrare la prima relazione, in anni, che era davvero scritta in italiano e non in un oscuro dialetto. Di solito spendiamo un certo tempo nel tentativo di identificare l'origine linguistica dello scritto, senza quasi mai riuscirci (una volta identificammo l'origine abbruzzese dello scrivente, ma fu un'eccezione). E poi tante cose piccole e grandi e belle accadono. Come amici che ricompaiono e fa piacere stare un po' insieme, qualcuno risbuca dalla notte dei tempi e così si chiacchiera per ore e ore, altri, dal passato recente, ma quasi dati per dispersi. Ecco il ritrovare il piacere di stare con qualcuno diventa straordinario quando sei in mezzo a questi venti umidi e malinconici, una risata diventa cosa preziosissima, un sorriso la mattina quando entri al lavoro di quel collega e amico a cui vuoi bene o un gesto d'affetto gratuito di un'amica. Ecco sono queste le cose che dal buio della malinconia aprono la finestra e fanno entrare l'aria.

giovedì 4 giugno 2009

Ricordo di te


E' l'alba di un giorno di maggio e sto correndo in aeroporto. C'è il sole, siamo in due, corriamo contro il tempo sperando di poter mantenere la promessa fatta. Arriveremo in tempo? Lei è in fin di vita e ci eravamo promessi di ritrovarci ancora una volta prima della fine, la promessa ce l'eravamo scambiata appena 15 giorni prima. Il viaggio, per altro breve, sembra non finire mai. Il treno dall'aeroporto alla città, in perfetto orario, mi sembra vada a passo di lumaca e invece sfreccia. Scendiamo alla stazione, saltiamo sulla metro e ci catapultiamo all'ospedale. Lei è lì, piena di morfina, incosciente. Quando mi avvicino cambia un po' il ritmo del suo respiro, mi vengono le lacrime agli occhi davanti a tanta sofferenza. Penso "molla, vai, siamo qui abbiamo mantenuto la promessa, ora basta dolore." C'è sua madre, ci guardiamo, ci stringiamo una mano. E lei mi dice "Ora basta no?" annuisco. Usciamo dalla stanza è arrivata l'infermiera. Decidiamo di andare un momento a posare la valigia, l'infermiera dice che lei è stabile e che potrebbe restare così a lungo. Andiamo in albergo. Poggiamo le valige. Suona il telefono "Vi ha aspettato... ora è andata via...". Mi alzo, ci alziamo, ritorniamo in ospedale. Nella stanza entro io con la madre e la sorella. Facciamo ciò che le donne fanno spesso in questi casi: la prepariamo. La guardo, ora con il volto disteso, senza più ombra di sofferenza, è di nuovo bellissima , così come me la ricordavo. Non parliamo, non vogliamo pensare a nulla di ciò che seguirà, al vuoto, alle conseguenze, ai figli di lei adolescenti e fragili, a noi che restiamo.
Esco. Siamo all'ultimo piano di un palazzo molto alto, la luce del primo pomeriggio entra calda dalle finestre e dai lucernai. E' quasi una nebbia dorata che avvolge ogni cosa. Non ci sono lacrime, non c'è altro che un senso di ineluttabilità, di qualcosa di compiuto, un sottile sollievo per la fine di una sofferenza. Improvvisamente sento un canto, una voce di donna che intona parole in una lingua sconosciuta. Sua madre è accanto a me. Una seconda voce si unisce alla prima, poi un'altra e un'altra ancora. Il canto ha un suono che evoca qualcosa di antico. "cosa è? è così bello..." mi dice, scuoto la testa e comincio a seguire il suono. Cammino nel corridoio, ne imbocco un altro, arrivo davanti ad una stanza, da lì emerge il canto. In un letto è steso un uomo anziano, un africano. Attorno a lui quattro donne in costume tradizionale, cantano. La luce entra trasversale, sfiora le donne, avvolge i piedi del letto, il vecchio sorride, le donne si voltano e mi sorridono. Il canto è finito. Sorrido e mi giro tornando indietro. Un senso di calore mi avvolge, penso a quanto speciale sia questo momento, non trovo un senso specifico, una ragione. Sento solo, con ogni fibra del mio corpo, il momento presente.
Sono passati 5 anni da allora, forse, ora, riesco davvero a dirti, a dirmi che mi manchi enormemente. Buon viaggio amica mia.