giovedì 30 dicembre 2010

Il secondo principio della termodinamica e il senso di colpa

 

In chiusura di un anno di poche parole-web, vorrei raccontare ai 2-3 sventurati che capitano qui, alcune mie riflessioni. Un parallelo tra fisica e anima che ultimamente mi si ripresenta di continuo. Bene per far poco casino parto dall'inizio.
Uno dei ruoli che la vita mi ha attribuito è quello di ascoltatore, ovvero la gente, anche gli sconosciuti, dopo poco che parlano con me, mi raccontano la loro vita, i desideri, le aspirazioni e i dolori. La gente mi racconta di sé. Penso che questo dipenda dal fatto che non si sentono giudicati, la mia faccia dice "vai avanti che bella storia" più o meno qualunque cosa mi stiano raccontando di sé stessi. Per me ogni essere umano è una cosa bellissima, sacra, nella somma delle sue imperfezioni. Anche la storia umana all'apparenza più convenzionale ha per me un qualcosa di speciale: l'essere umano che me la sta raccontando.
Mi trovo così ad avere un discreto campionario di storie nel mio database e dato che ho la tendenza ad organizzare dati e cercare pattern ricorrenti, mi sono resa conto che tutte o quasi, le storie che mi si raccontano sono condite con lo stesso ingrediente: il senso di colpa.
Sarà la derivazione cattolica per uno, il senso del dovere marxista-leninista per un altro, la mamma ebrea per un altro ancora, tutti mi si rivoltano nella melma del senso di colpa. Stanno lì impantanati nelle "terribili" cose che hanno fatto, si arrotolano su se stessi tentando disperatamente di tornare indietro e disfare quel che hanno fatto. Orbene, si tenga presente che non stiamo parlando di omicidi o delitti vari, di solito si tratta di emerite cazzate. Il classico dei classici infatti sono le corna al compagno-compagna (moglie o marito dipende) di turno. Coloro che più si flagellano poi sono quelli o quelle che hanno messo un cornino fugace, o avuto una storia di breve durata di solito causata dall'essere trattati a casa come se si fosse un mobile. Ora ma se ti trattano come un oggetto di servizio fino a farti sentire una pezza, che male c'è a dare una bottarella all'amor proprio tra accoglienti braccia? L'importante è non scappare con il o la padrona o padrone delle suddette braccia abbandonando baracca e burattini. Evitato ciò e caricate le batterie, non è successo nulla di male. Tutti sono contenti: l'amante è stato amato, il consorte riceve sorrisi invece di rimbrotti e i pargoli hanno un genitore sereno. 
Va be' ma mica è una bella cosa comunque, dice una voce dal fondo. Certo invece di risolvere i problemi casalinghi il soggetto è scappato altrove, vogliamo fucilarlo? Il soggetto stesso dice di sì, o chiede a gran voce che qualcuno riporti indietro l'orologio e si possa cancellare quanto fatto. Qui è il senso di colpa che parla, quel meccanismo idiota che invece di farci riflettere, alzarci in piedi e dire "be' se ho fatto tutto questo casino ci sarà pure un motivo, ora lo trovo e cerco una soluzione nella mia vita", ci tiene ben fermi e ci fa dire "ah se potessi tornare indietro".
Quest'ultimo pensiero è la peggiore cazzata di tutte. Indietro non si torna, non nel mondo macroscopico, non qui, non ora. Infatti c'è una legge fisica che nel nostro mondo vale e che regola molte molte cose, quella legge che ci ha fatto inventare il tempo come oggetto con una ben precisa direzione: il secondo principio della termodinamica. Questo principio chiarisce che il tempo non è reversibile (a meno di essere una particella e non un umano più o meno coglione), l'entropia aumenta, se fai casino il casino resta. Quindi se proprio uno si deve fermare, lo faccia per pensare, per trarre spunto dall'accaduto, da ciò che ha fatto, per cercare nuove direzioni e soluzioni ai problemi suoi e del suo mondo. Ogni casino combinato ha una sua ragion d'essere, una sua funzionalità, lasciatevelo dire da chi di cazzate ne ha fatte tante e non ne rinnega nemmeno mezza, anzi le rivendica tutte, dalla prima all'ultima, che poi è sempre la migliore....


E per chiudere:
Buon 2011
che sia un anno a bassa entropia e di grande evoluzione!

lunedì 6 dicembre 2010

E certo che nel pubblico sono dei privileggiati...

Oggi nel primo pomeriggio avevo un appuntamento. Era stata indetta una riunione per un lavoro di ricerca che sto conducendo con un gruppo di universitari. Ci si vede nella stanza della prof alla Sapienza. Entro e fa un freddo boia, più freddo che fuori, al punto che la prof ha il cappotto. 
"Ciao Farlocca, ben arrivata accomodati" inciampando tra cavi di computer e fogli di carta mi passa una sedia. Siamo in 5 in una stanzetta ingombra di carte, libri, computer. Questo è l'invidiato studio singolo di un esimio docente. Mi siedo rabbrividendo.
"Freddino lo so, scusa, sono due anni che ho il termosifone fuori uso e la finestra mezza rotta, ma hanno promesso che quest'anno qualcosa mi sistemano... ecco magari accendo la stufetta..."
Tutti scuotono la testa, si leva un coro di no-non-ti-proccupare, non capisco bene finché non vedo la stufetta. Un oggetto diciamo di modernariato, in metallo non identificato con una bella resistenza di quelle che diventando incandescenti riscaldano bene bene. Peccato che in quella stanzetta, con quel coso dal filo spelacchiato, il rischio di finire tutti arrosto è quasi una certezza.  Scuoto anch'io la testa unendomi al coro.
Cappotto-muniti iniziamo a lavorare. Scorrono numeri, pezzi di software, ci perdiamo felicemente dietro a problemi di altra natura, ci passa anche il freddo.
Bussano alla porta.
"Avanti" la voce della prof sovrasta il nostro parlottio e si apre la porta
"Signo' semo quelli der termosifone" entrano in due vestiti da idraulici, non certo due tipi da film porno su casalinga-idraulico, ma hanno la tuta blu d'ordinanza e gli attrezzi giusti. Nessuno ha il tempo di reagire, ci scavalcano elegantemente e si mettono a smontare il termosifone. Noi imperterriti proseguiamo tra sibili e spruzzi. Ad un certo punto praticamente parte un'onda di marea e  noi ,sempre impassibili, continuiamo a lavorare sollevando i computer e i cavi dei medesimi. L'acqua scorre e noi solleviamo mucchi di carte qua e là, sempre continuando a parlare e discutere, mentre i signori idraulici continuano a bofonchiare attorno al termosifone. Fino a rimontarlo.
"Signo' noi hamo finito, ce pensate voi co li stracci..." ed escono sereni.
Mentre asciugavamo per terra armati di carta asciuga tutto e stracci rubati alle donne delle pulizie,  buttando carte bagnate e ridacchiando, nessuno escluso, la prof ha promesso pinne e maschere a tutti per la prossima riunione, "tanto farà caldo..." ha aggiunto sorridendo beata. Tra sbuffi e gorgoglii, il decrepito termosifone aveva davvero cominciato a scaldare.


venerdì 3 dicembre 2010

Tornando sui banchi di scuola...*

In questo periodo mi trovo molto coinvolta con la vita universitaria. Da un lato ho degli amici che, seppure ben più che adulti, hanno deciso di tornare sui banchi di scuola e si sono iscritti all'università (passando ardue selezioni), dall'altra perché in questo semestre tengo un corso presso una facoltà scientifica. Le mie intersezioni con il mondo universitario sono state tante, continue nel tempo e di solito piuttosto belle. Ne conosco pregi e difetti, nonché l'evoluzione degli stessi (sopratutto dei primi), così non ce la faccio a stare zitta.
Cominciamo dicendo che confermo quanto dice uno degli amici tornati a scuola: la riforma Gelmini è pura fuffa. Lui sostiene che sembra la riforma dell'esercito scritta da noi due insieme che non abbiamo neanche fatto il militare. E' vero.
Nella regolamentazione/legislazione universitaria già esistono (e da sempre) ampi strumenti per dar spazio alla meritocrazia e al controllo sulla produttività, solo che nessuno li implementa. Ad esempio tutti i docenti che vincevano un concorso, fino a poco tempo fa, passavano 3 anni in "prova" (con abbondante decurtazione dello stipendio già non proprio elevato), dopo i tre anni una commissione di revisori, esperti degli stessi temi di cui si occupavano i docenti, li confermava o meno in ruolo sulla base della loro produttività. Questo in teoria, dato che nessuno, o quasi, pare sia mai stato non-confermato.
L'attività didattica andrebbe rendicontata lezione per lezione con un libretto, cartaceo, della didattica (questo ad esempio alla Sapienza a Roma), libretti che finivano in archivio senza che nessuno li guardasse, così molti hanno smesso di farli,(sempre alla Sapienza ora si fa tutto via web in forma sintetica e finalmente i rendiconti li usano e la gente ha ripreso a farli).
I concorsi, locali o nazionali che fossero, erano piuttosto duri, prove scritte e di laboratorio, lezioni da tenere ed esame (in teoria) minuzioso delle pubblicazioni e del lavoro svolto. 
E via così. 
In pratica c'è già tutto, ma se non ha funzionato fino ad ora perché dovrebbe funzionare un qualcosa di apparentemente nuovo che implementa, nella sostanza, le stesse cose?
Appunto è fuffa.
La protesta in corso, per quanto legittima, è misera pure quella. Ripropone le stesse modalità di sempre, testimoniando una mancanza di immaginazione deprimente. Ne parlavamo con i ragazzi del corso, mi avevano cercato per sapere se facevamo lezione dato che il dipartimento è occupato. Si rifletteva che in fondo, se il punto è che mi si vuole togliere la possibilità di studiare, che senso ha bloccare le lezioni? Al contrario, occupiamo tutto, teniamo tutto aperto e organizziamo lezioni e seminari a ciclo continuo. 
Il punto fondamentale è la mancanza di denaro. Manca tutto oramai, anche il personale sopratutto quello pensante, non c'è turn over e quindi anche nelle amministrazioni non c'è abbastanza gente, con un sistema oltretutto super burocratizzato. Pochi giorni fa ho assistito ad una scenetta che pare sia la norma:

Ufficio amministrativo di un dipartimento della Sapienza in piena riorganizzazione, quattro impiegati, di cui uno solo realmente attivo, gli altri stanno cercando di capire le nuove norme se no non sanno cosa fare delle carte che hanno in mano. Ingresso di un docente con gli occhi di fuori, è il terzo in mezz'ora:
- Qualcuno mi dice perché non è stata approvata la richiesta di riparazione della finestra che ho fatto?
- Professò nun ce stanno i sordi..
- Lo so per questo ho chiesto di pagarla io con i soldi di quella consulenza che ho fatto, quel contratto che ho portato qui per finanziare queste cose...
- Professò nun lo so allora... sarà n'artra roba de quelle co' la corte dei conti...
- Ma a me viene la bronchite...
- Professò nun lo so je l'ho detto...
- .... (parolacce del docente) ...
- Professò ma che cazzo volete tutti da me che c'ho solo la terza media?
Il professò smette di bestemmiare, si guarda intorno e con aria desolata:
- Già, ma lei con la sua terza media forse è l'unico che sa quel che succede qua dentro...

*liberamente ispirato dalla realtà corrente

giovedì 25 novembre 2010

Tanto per interrompere il silenzio


Mi sento come il coniglio di alice nel paese delle meraviglie ultimamente, corro, corro, corro, con l'orologio alla mano. Gli altri forse non sanno dove io stia andando, do l'impressione di esser persa,  avvolta in un generico "ho da fare" che non mi attardo a spiegare. E invece no. So bene dove sono e dove vado. Quell'aria svagata e un po' assente, me la regala la fatica sì, il lavoro, quello pagato, sfianca ultimamente, ma c'è dell'altro, un gran lavorio volto a digerire tutto un mondo antico che mi porto dietro. Viaggio di qua e di là con il mio bagaglio, cerco di allegerirlo, di lasciare quel che non serve lungo la strada. Un giorno avrò solo un fagottello, piccolo, una cosa minima, dentro ci saranno le belle eredità che chi ho incontrato mi ha lasciato. Dentro ci sarà anche questo pezzo di musica che qualcuno, anni fa, sicuramente per sbaglio perché non era un generoso, mi ha lasciato.


venerdì 29 ottobre 2010

Chimere e ... letture



Io e gillipixel siamo una chimera. Ebbene sì, ciò è noto ai pochi "eletti" che frequentano le nostre stanze web. Siamo chimera, creatura doppia, lui è maschio, io femmina, viviamo a diverse centinaia di chilometri di distanza.  Lui è alto, io decisamente no. Io sono rumorosissima e lui no, io parlo troppo e scrivo poco, lui parla poco e scrive molto... Siamo dunque unione di opposti, di elementi contrastanti che, nel nostro dialogare, trovano armonia. O almeno spero questo resti vero dopo codesta presente confessione.
Lui legge cose elevate, mai mi ha detto di star leggendo immondizia, anche il suo fumetto preferito è, tutto sommato, un cult di livello. Ora non so se questo dipenda dal fatto che voglia salvare regolarmente la faccia (ne dubito) e che quindi non confessi letture ignobili, ma lui non legge 'monnezza, io sì. Ultimamente, dato lo stato pietoso dei miei neuroni a fine giornata, leggo solo cose tipo romanzo-fantasy-comprato-al-banchetto-dell'usato-perché-in-copertina-c'è-un-bel-disegno, romanzetto-thriller-anni-40-di-autore-ignoto, fantascienza-recente-americana-tradotta-da-analfabeta-italiano... (niente romanzi rosa, quelli sono proprio troppo anche per i miei neuroni in coma terminale)...
Esiste un piacere sottile nel leggere immondizia, ti puoi arrabbiare con l'autore e così sfogare le incazzature-frustrazioni della giornata, puoi buttare via il libro a metà senza alcun senso di colpa, puoi sentirti molto molto intelligente e bravo/a nello scrivere, la tua prosa, per quanto rara e fallace, è di certo migliore di quella del testo che leggi. La storia è idiota, i tuoi neuroni si riposano, sanno già cosa succederà tra due pagine, o tra 3 o anche tra 100. Sei senza impegno, finalmente, dopo una giornata delirante, con riunioni e coltellate, con gente che fa danni senza nemmeno rendersene conto, dopo aver ascoltato qualcuno che impiega 100 parole per dire qualcosa che si può dire in meno di 10, dopo essere tornata nella tua casa vuota, con il telefono sempre silenzioso, con l'autunno che avanza, cupido che ha deciso di evitarti e fa pure freddo. Insomma dopo una giornata di merda, leggere un libro di merda è un atto liberatorio, una liberazione del neurone, un inno alla parte più ignorante e cavernicola dell'anima.

Sia detto poi, che, in verità,  il citato libro di merda, resta, sempre e comunque, migliore del 90% dei programmi tv disponibili.

lunedì 11 ottobre 2010

Dei sogni e della realtà

Capita di sognare, a volte, con un'intensità estrema. Sono sogni in cui il reale è il sogno, a volte sono bellissimi e svegliarsi è terribile, altre volte sono orribili e svegliarsi è salvifico. A volte ci si sveglia e non si sa più tanto bene dove si sia. Di recente, nel gran silenzio che mi è preso, è successo proprio questo. Ho sognato, ho sognato con gran forza, ho visto la mia realtà, in quel sogno, sgretolarsi, mi è stato detto che la mia vita era solo un sogno schizoide, il rifugio di una povera malata di mente e sapevo, nel sogno, che quel che mi si diceva era vero. Ho visto ogni cosa raggiunta, ogni traguardo realizzato, svanire.  Ogni singola cosa vista, provata o vissuta, in qualunque forma, era solo una menzogna.

Ci ho messo un po' a svegliarmi, ho faticato ad emergere dal dolore che quel sogno mi stava dando. Ho cominciato a toccare gli oggetti sparsi per la stanza, a sentire il calore della coperta, a guardare il mio letto vuoto, i miei libri di roba tecnica, il computer, gioco-lavoro-pezzo-di-vita. Ho toccato e guardato mentre il cuore riprendeva a battere ad un ritmo normale, ho guardato, toccato,  annusato gli odori della casa, lo scarico che a volte puzza, il profumo dell'incenso in corridoio; ho ascoltato il tram che passa sotto la finestra, l'ubriaco della notte che inveisce al mondo in una lingua ignota,  ho respirato a fondo ogni cosa. E allora, la mia vita, così spesso solitaria, così spesso malinconica, mi è sembrata bellissima.

Ps. grazie gilly parlare con te mi fa bene :-)

giovedì 23 settembre 2010

E rieccoci qui ...

Dell'autunno, come della primavera, mi piace tanto l'equinozio. Mi fa pensare che siano stagioni per bene, caldo e freddo si alternano abbastanza equamente, giorno e notte stanno alla pari, almeno all'inizio. Certo la primavera è più simpatica perché nel suo scorrere porta una quantità crescente di calore e luce, mentre l'autunno ha questa vena di malinconia crescente, questo infreddolimento sempre maggiore. Comincia così, senza clamore, una mattina apri la finestra e capisci che dovrai mettere le scarpe chiuse e i calzini se no in moto le dita dei piedi perderanno sensibilità. Torni a casa, è sera e di colpo tiri fuori la coperta leggera, perché a te che sei un po' serpente, sotto i venti gradi ti si gelano pezzi sparsi. Però all'equinozio luce ed ombra si equivalgono, il pianeta, per un attimo diventa come il simbolo di yin-yan. E' tutto tranquillo, non c'è quella passione sfrenata che porta con sé l'estate, né quel senso di immobilità un po' fatalista, dell'inverno. Siamo, per un attimo, in perfetto equilibrio.

E allora ti dici che anche tu puoi fare qualcosa di equanime, di egualitario, di equilibrato. Ad esempio puoi ricominciare a parlare con la tua parte web, puoi uscire da quel silenzio quasi totale che ti ha catturato da giorni. Puoi equamente, (e possibilmente) in bella prosa, tornare a dire cazzate sul tuo blog.

mercoledì 8 settembre 2010

Per le tortuose strade

Sono rientrata da un po'. Alla fine di agosto io e il mio fidanzato a due ruote siamo tornati a casa. Strade tortuose ci hanno condotto in luoghi per noi speciali, luoghi fatti di vento, odori selvatici e pensieri che per noi sono poesia. Siamo andati in giro e nel vagare abbiamo consolidato un sorriso.

A casa non ci aspettava nessuno, solo lavoro (molto), qualche incontro sorridente e strade note che però oggi ci sembrano diverse. Siamo più armonici dopo quasi 2000km insieme, siamo più stabili, abbiamo meno paura l'una dell'altro, sappiamo come muoverci insieme. In fondo imparare ad andare in giro su di un mezzo a due ruote richiede quasi la stessa cura e attenzione che richiede una relazione tra umani. A volte è quasi altrettanto divertente, solo che il contradditorio, il confronto è forse un po' meno costruttivo... be' ad un coso a motore, per quanto amato, non verrà mai in mente un post come quello del mio amico gillipixel. Certe cose non le dirà mai, ma può contribuire molto a fartele pensare. Nel post di gillipixel ad esempio c'è una frase che ho pensato tante volte in questa estate vagabonda, l'ho pensata quasi con le stesse parole, solo che non mi era venuta così bene:

Forse il senso della vita consiste proprio in un’incessante, altalenante ed appassionante ricerca di nuovi significati cumulativi da assegnare alla vita stessa. Forse tutto il senso sta nella “ricerca per la ricerca”, in una curiosità inquieta che si autoalimenta ritrovando in se stessa quel combustibile dal quale è a sua volta ciclicamente travolta e ri-combusta.

E questo è quel che ho fatto per tutta l'estate, ho cercato qualcosa che non ha nome, ho cercato per cercare, ho imparato per imparare, ho sorriso per sorridere, ho chiuso gli occhi e visto tutto quel che avrei voluto vedere sapendo che ero io a volerlo.

giovedì 19 agosto 2010

Ricaricare le batterie

La verità è che ho passato questi giorni a lavorare come un mulo. Ore e ore di computer con il server scassato e programmi che sul computer di casa ci mettono una vita a girare. Ho fatto la muffa. Ebbene sì mi sento come quegli alberi, belli per altro, che popolano il sud degli stati uniti, coperti da muffe lunghissime, sono belli ma su di me le muffe stonano.

presa da qui
Dunque urge una nuova fuga prima dell'autunno. Scappo allora, di nuovo al mare, di nuovo su due ruote. Magari però stavolta mi do una calmata e faccio meno chilometri....

domenica 15 agosto 2010

Ferragosto cittadino

Eccomi qua il 15 di agosto ad ascoltare le campane del mattino in quel di Roma. Eccomi qua a scrivere, un po' perché ho delle scemenze da dire, un po' perché London Alcatraz mi ha messo ansia con il suo post ferragostano, mica voglio farmi cancellare dal suo blogroll! (potete sentirmi sghignazzare anche da lì).
Ferragosto a Roma è sempre stato bellissimo. 
Un tempo la città  era davvero deserta, i residenti o se ne erano andati in vacanza altrove già da tempo o provvedevano a sparire entro l'ora di pranzo in direzione del mare o delle campagne limitrofe. Se si andava al mare, ad esempio ad Ostia, la densità umana era degna della metropolitana di Tokio all'ora di punta. Per ciascun ombrellone si trovavano almeno 3 generazioni di romani, con annesse borse e sporte contenenti l'equivalente di un banchetto di nozze. Chiaramente otri di vino accompagnavano il tutto, con successivi numerosi incidenti sulla via del ritorno la cui gravità era moderata solo dalle lunghe code e conseguente bassa velocità. Numerosi ricoveri per colpi di calore e insolazione allietavano la festa di fine estate del personale degli ospedali romani, insieme alle numerose presenze al pronto soccorso di chi, magari tormentato dal mal di testa, non riusciva a trovare un'aspirina in tutta la città. I reparti psichiatrici erano sempre pieni. Anche solo per il senso di solitudine che la città vuota comunicava molti, tra gli individui più fragili, preferivano star lì dove almeno c'era sicuramente tanta gente.
Chi, come me, restava entro il Grande Raccordo Anulare e aveva un equilibrio mentale semi-ragionevole, viveva un'esperienza  affascinante. La città era di noi pochi e dei turisti, si stava come sospesi nella totale assenza di qualunque servizio, dalla farmacia, al ristorante, al bar: tutto chiuso.  Guai a finire le sigarette il 15 agosto! Un'estate, da adolescente, rimasi in città con alcuni amici, chi dimenticato dalle famiglie, chi rimandato a settembre e quindi messo in punizione  (per inciso diciamo pure che lasciare un'adolescente da sola a casa per alcune settimane, non è esattamente una punizione...) Quell'anno lì l'unica attività commerciale che trovammo in funzione fu lo spacciatore di droghe leggere del quartiere che quasi ci abbracciò vedendoci arrivare. 
Gli autobus erano pochi e facevi prima ad andare a piedi che ad aspettarne uno. A Ferragosto sviluppavi  capacità di sopravvivenza in condizioni estreme  (il che, come noto,  è sempre utile).

Oggi le cose sono cambiate. La città è solo parzialmente svuotata, i servizi ci sono tutti e le orde con sporte alimentari sono meno numerose. La città è sempre bella, anzi bellissima, ti godi le strade, il rumore si è ridotto ad un brusio di fondo, il cielo è di un azzurro confortante e luminoso. Nell'aria  c'è la promessa di una giornata quieta, di una lunga passeggiata serale tra le epoche che, qui, convivono in ogni angolo, ricordando a chi vuol ricordare,  quali sono le cose che restano e quelle che se ne vanno.


lunedì 9 agosto 2010

E di nuovo si torna

Eccomi qua, dopo 1350km in una settimana, sono di nuovo connessa. Disintossicata da web, lavoro, conflitti e quant'altro disturba la quiete dell'anima. Mi sono allegramente lessata sulle strade d'Italia, diretta a Sud verso amici vecchi e nuovi, verso una leggerezza che raramente ho trovato. Ci sono cose che facciamo, incontri e atmosfere che guariscono. Ecco mi sento guarita.
Oggi poi è un giorno particolare, dedicato a chi non c'è più, a chi, nonostante siano passati parecchi anni e tanta acqua sotto i ponti, continua a mancarmi. Sono andata a portarle fiori e piante in quel luogo che a me non dice nulla, ma rappresenta comunque l'unico punto dove si possa compiere un rito di memoria. Quest'anno, per la prima volta, è stato un rito sorridente. Ho guardato la lastra di marmo con il suo nome e le date, con gli altri che sono lì e sono, come lei, morti d'estate, quasi tutti. Mi sono chiesta se anche io me ne andrò in estate, con il sole cocente e l'asfalto bollente. Mi sono chiesta se le piacerebbe come sono ora, mi sono risposta un "abbastanza", mai nulla le andava bene in toto, anche se era capace di amare incondizionatamente. Ho pensato che la mia estate su due ruote avrebbe significato un milione di telefonate, una ad ogni sosta, anzi con soste apposite per telefonare, perché lei era ansiosa. Oppure avrei dovuto mentire, come un'adolescente, partire di nascosto, senza dire come andavo. Mentire era cosa che da adolescente non facevo, al massimo tacevo. E a lei non tacevo granché, imparando nel modo più duro, che avrei fatto meglio a star zitta.
Tirava gran fregature la mia mamma, con la sua aria aristocratica e sorridente, ma era certamente una delle persone più divertenti che abbia mai conosciuto. Me la sono portata in viaggio questa volta, lei e tutti i ricordi, vicini e lontani. Gli uomini che ho amato, gli amici e le amiche, i sogni infranti e quelli avvenire, ciò che è stato e ciò che non sarà. La moto un po' pesava all'andata, al ritorno la sentivo più leggera. Tante cose hanno trovato il loro posto in questo andare. Ho lasciato andare cose e persone, un lasciar andare da dentro, da quel luogo dell'anima dal quale di solito ci si aggrappa a ciò che è stato bello. Ho ringraziato dal profondo per i bei momenti, per le tante cose ricevute, poi ho salutato e ho continuato la mia strada, finalmente diritta, in pace come non lo sono mai stata...

sabato 31 luglio 2010

Vacanza!!!


E' da quel giorno   che aspetto questo momento, da quel colpo di fulmine che mi prese a dicembre e ancora non mi è passato; ho covato la speranza, il desiderio, il sogno e ora quasi ci siamo. Ebbene sì, se non mi casca qualcosa in testa, se tutto va bene, all'alba del primo agosto la farlocca e il suo scooter si lanciano per le strade d'Italia. Dopo tanto viaggiare all'insegna del lavoro, si parte, su due ruote, con tre borse e un'anima randagia. Unica meta la vacanza. Vado, voglio macinare chilometri, vedere persone care, andare al mare, lasciare alle spalle silenzi violenti, conflitti inutili, autismi vari. Vado dove non ho internet, vado e speriamo non piova.







Ps. non penso che sarò online per un po', quindi non abbiatevene a male se non avete risposte o i commenti non saranno visibili presto. BUONE VACANZE!

lunedì 26 luglio 2010

A volte si torna a malincuore...

Ci sono quei periodi in cui prendi tante di quelle sberle che ti senti un pugile suonato, tra uno sganassone e l'altro fai fatica a capire perché dovresti stare ancora in piedi e quali siano le motivazioni che dovrebbero spingerti ad alzarti la mattina. Poi, come per miracolo, la vita ti ricorda perché sei ancora qui e perché non ti sei ancora tirata sotto a un treno. Sbuca un qualcosa, un'esperienza, un incontro o magari solo un cielo più blu del solito, che ti fanno allargare l'anima, respirare a fondo e pensare: va bene si può andare avanti. Ti ritrovi magari seduta in caffé con due amici, ma non un caffé qualunque, stai lì, vicino alla moschea Sulaimaniya di Istanbul a fumare tabacco alla mela e bere tè, mentre il muezzin chiama alla preghiera. Stai lì, in un altro mondo, in un'altra vita e tutto va bene.

Ma andiamo con ordine.

Ho la gran fortuna di fare cose che interessano ad altri, così ogni tanto mi viene chiesto di andarle ad insegnare qua e là, o magari di collaborare a questo o quel progetto in cui sono coinvolte persone di mezzo mondo. Qualche mese fa, un amico che lavora nella cooperazione mi cerca e mi chiede di partecipare come docente ad un progetto con la Turchia, si tratta di tenere un corso di una settimana sulle cose che faccio io, il posto è dimenticato da dio e da buona parte degli uomini, ma poi magari "ti fermi a Istanbul un paio di giorni". Accetto, convinco una delle mie migliori amiche a venire con me, preparo il materiale per le lezioni, mi faccio prendere dal panico perché farò lezione in inglese con un'interprete che traduce in turco... poi non ci penso più che sono troppo occupata a prendere sberle.

Così arriva il 18 luglio e mi ritrovo con una valigia all'aeroporto di Fiumicino a prendere una serie di aerei fino a Trabzon sul Mar Nero. Viaggio demenziale, albergo peggio, con affaccio autostrada e frequentato da signore che fanno un mestiere antico, anche meritorio volendo, ma certamente rumoroso. Salvata dai tappi per le orecchie mi avvio a far da docente ad un gruppetto di signori turchi, la maggior parte sopra i 40 anni, molto motivati e molto ignoranti. La cosa in sé pare terrificante eppure si rivela essere un'esperienza fantastica! Non la faccio lunga, dico solo che oltre ad essere tutti gentilissimi e simpatici, si sono impegnati come nessuno mai e alla fine io ho imparato 3 parole di turco ma loro una vagonata di roba tecnica da far paura.

E poi il fascino del vivere una realtà completamente diversa e non da turisti. Il fascino di un paese davvero multietnico, con mille contrasti e dotato di una vitalità enorme, con una gran voglia di uscire dal cantuccio in cui si trova, senza però perdere l'anima strada facendo. Tutto questo in un buco di città fuori dalle rotte turistiche. 
Poi prendi un altro aereo e fai quei 1350 km che ti separano da Istanbul e cadi in un sogno. Ti perdi tra 15milioni di persone che risiedono in quell'area, fiumi umani compositi, che scorrono riempiendo ogni angolo di un posto che è così bello che mi è piaciuto come mi piace Roma. Cammini per 12 ore visitando luoghi storici e perdendoti per le strade, entri nel bazar e finisci nella bottega di un genio del vestire, un signore gentile che visto che tu e la tua amica non potete permettervi le sue meravigliose creazioni, ve le fa provare tutte, anzi si mette lì e vi veste come dice lui, trasformando te e l'amica da stanche turiste in principesse orientali. Annusi l'aria, la gente, nutri l'anima di una valanga di impressioni che per digerirle ti ci vorrà un mese. Dal vento che percorre incessantemente le strade di Istanbul, alle chiacchiere a gesti con i vicini di tavolo al caffé, tutto sembra fatto per dirti: ricordati che c'è sempre una ragione per sorridere la mattina, anche se a volte sembra improbabile.

domenica 18 luglio 2010

Eh oplà si riparte

E l'ho chiusa! La valigia intendo, finalmente ho stipato tutto il necessario in una valigia piccola, da imbarcare comunque che se no manco il balsamo per i capelli ti puoi portare. Di nuovo un aereo,  anzi due, di nuovo per lavoro, stavolta mi sa che però mi diverto... dove vado? eeeeheee mica ve lo dico adesso, vi tocca aspettare la prossima puntata.

domenica 11 luglio 2010

Gorgonzola al mascarpone


La farlocca qui presente ha un problema che le complica, costantemente, la già complicata vita, è un problema alimentare, nulla di mortale ma molto molto fastidioso. La farlocca è intollerante, molto seriamente, al lattosio. In realtà scoprire questo è stato per lei un evento risolutore, mille mali che l'affliggevano da tempo immemorabile, scomparvero come per incanto in conseguenza della semplice eliminazione del lattosio, in ogni sua forma ed accezione, dalla sua dieta. Quindi la farlocca giubilò estasiata. Solo un rimpianto, un dolore al centro l'anima, l'accompagnava: il distacco dal gorgonzola al mascarpone. 
Ebbene sì quell'alimento tra il piccante e il dolce, grasso da intasare le coronarie al primo morso, sublime nello sciogliersi sul palato, quello era l'unico vero distacco che le è sempre pesato. Il gelato si mangia di soia o di frutta, lo yogurt chissenefrega, la panna pace, non è essenziale, la besciamelle te la fai a casa con il latte a ridotto contenuto di lattosio o con il brodo. Tutto si sostituisce, di tutto si può fare a meno. Solo lui, l'estremo oggetto d'amore, è insostituibile e sempre sarà tale.

Ora, direte voi, a noi cosa ce ne dovrebbe fregare di questa tua perversione alimentare frustrata? Un attimo che vengo al punto.
Da un po' di tempo (parecchio) costruisco categorizzazioni degli eventi della mia vita, gioco a raggruppare, a trovare pattern comuni nei rapporti che intrattengo, cerco stralci di razionalità nell'irrazionale universo del sentimento. Ultimamente ho una categoria di relazioni umane che in altre epoche era sempre vuota, che si sta riempiendo sempre più. L'ho chiamata la classe del gorgonzola al mascarpone. Il nome deriva da un'analogia ovvia a questo punto del mio scrivere e della vostra lettura, in questa classe vanno a finire, per tempi più o meno lunghi, quei rapporti con persone amatissime, la cui compagnia è desiderata ardentemente e la cui vicinanza è spesso fonte di immensa gioia, che hanno un però che le contraddistingue. Alla lunga per me sono tossiche (e magari io per loro). Sono quelle persone che ami tuo malgrado, quelli che ami nonostante tutto, ma che ad un certo punto capisci che, se non cambiano modalità (non sostanza solo modalità) finiranno con il farti la pelle. Senza volerlo, amandoti anche loro ti faranno fuori. Sono, ad esempio, quelli che non sanno controllare la diarrea verbale quando stanno male e senza chiederti come stai (magari tu ti reggi in piedi per miracolo) ti investono costantemente con un mare di negatività e di orrori. Tu saresti ben felice di dar loro una mano, allora provi a dire la tua ed automaticamente diventi oggetto d'ira, perché "non capisci...". Quello che vogliono è un contenitore per l'ansia e basta. Neppure il pat pat sulla spalla è ammesso, devi star lì zitta e se dici una cosa qualsiasi, partono di sberla perché non sono in grado di ascoltare, stanno troppo male e cercano solo un parafulmini. Poi ci sono quelli che vanno sulle montagne russe che tu sembri una dilettante. Un giorno sei l'oggetto di ogni amore, il giorno dopo sei il nemico numero uno, il tutto senza una parola di spiegazione. Anche lì c'è un malessere grande, uno squilibrio profondo, che tu potresti accogliere se solo venisse esplicitato. Potresti anche accettare di svolgere il ruolo del nemico numero uno, se solo ti avvisassero. Ma parte del dolore che queste persone vivono è proprio l'impossibilità di comunicare. Non ce la fanno proprio. Altri ancora sviluppano stati di violenza repressa feroce, che esplode in modalità le più diverse, dal cacciarti via malamente quando hai bisogno di accoglienza al prendersela con te, di nuovo, senza spiegartene le ragioni. 
Non sono tante le persone nella catgoria del gorgonzola al mascarpone, ma sono, adesso, un numero maggiore di zero. Un tempo non era così, riuscivo ad accogliere tutti e tutto, a mettere sottovuoto il dolore che i malesseri altrui mi provocavano. Adesso non ce la faccio più. semplicemente Non posso smettere di amarle queste persone, non smetterò mai, ma finché non riusciranno a vedere anche me nel loro rapporto con la vita, io ne faccio a meno, gli giro intorno, ogni tanto ne prendo una punta di cucchiaino, per vedere che succede, se va meglio, se oggi si accorgono di me, se stanno bene abbastanza da non farmi male, un po' come per il gorgonzola al mascarpone, che suo malgrado, mi avvelena.

sabato 3 luglio 2010

Compleanni, bilanci e macerie varie

L'insonnia da jet lag e caciara esistenziale imperversa. Dunque rieccomi a produrre esorcismi, pseudo-racconti e quant'altro di inutile con le parole si possa fare per decorare un blog blu come la notte, un blog in cui, pure se fosse giorno, mica ci si vedrebbe un granché.

Quest'anno invece di essere in giro, il giorno del compleanno sono tornata a Roma. Sono scesa dall'aereo proprio quel giorno lì. Si sa che i compleanni sono spesso giornatacce, sopratutto in periodi di transizione, in fasi della vita in cui nulla di rassicurante è presente e ancor meno probabile. Questo compleanno è stato un qualcosa di non facile da descrivere. Da un lato la stanchezza di 20 ore di viaggio che, accoppiata al senso di preoccupazione che associavo ai giorni che dovevano arrivare, mi dava un senso di sfinimento cosmico che si è esplicato in molte lacrime e innumerevoli lavatrici. Dall'altra la bellezza, la tenerezza dei gesti di chi mi ha accolto. La famiglia farlocchissima al gran completo e quei pochi amici che ho a Roma, mi hanno fatto una festa serale, in terrazza, con i nipoti che imperversavano, una partita mundial (che non ho visto), cibo buono e molto affetto. Io completamente intronata che dicevo cose sceme, cercavo di non pensare a cosa mi aspettava e mi aggrappavo a speranze varie.
Poi sono arrivati i giorni successivi.

Non sto a dar dettagli, diciamo che mi sento come se fossi seduta in una casa completamente vuota, è rimasto solo uno scatolone con le poche cose che mi appartengono davvero. Sono pochissime, sono solo le cose fondamentali. Siedo su quello scatolone e guardo fuori da una finestra. Là ci sono i progetti che avevo, sono andati a fondo con il Titanic di cui parlai una volta. C'è poi qualcuno, che mi è molto caro, e che mi ha accolto con un muro di terribile silenzio ostile, un silenzio come un pugno in faccia, un pugno al centro dell'anima, inatteso e senza spiegazioni, un silenzio che nega.


Posso solo dirmi che da tutto questo vuoto, dal dolore, dallo stupore che provo mentre mi guardo intorno, da tutto questo non potrà che nascere qualcosa di straordinario, qualcosa che non posso neppure immaginare, perché davvero non è rimasto più nulla di quel futuro che avevo immaginato.

giovedì 1 luglio 2010

Quando l'Italia ti sembra la Svezia


Daje e daje ho dovuto aspettare di essere a Roma per avere una buona connessione e il tempo e la testa per raccontare qualcosa. Non la farò lunga, prometto, anche perché è un'ora indecente della notte ed è giusto il jet lag che mi tiene qui davanti al computer.
Orbene, sono andata in Venezuela, mi ci hanno invitato per lavoro e poi mi son regalata, insieme al mio amico e collega, detto il Conte, ben due giorni e mezzo di vacanza. Questo in breve il riassunto della vicenda. Veniamo ora ad un minimo di elaborazione della medesima.
Il Venezuela è un paese di merda. Vediamo da dove viene codesta affermazione. Premesso che di paesi del terzo mondo ne ho visti diversi, un posto come quello in cui sono stata non lo avevo mai visto. Passino le attese baracche, marchio noto del sottomondo, passi l'inquinamento (se non hai da mangiare te ne frega un tubo dell'ambiente), passi il vivere blindati perché-avete-delle-facce-da-turisti, passi pure il casino e l'inefficienza, ma proprio proprio la propaganda pro-Chavez in ogni dove, ecco quella io non la sono riuscita a digerire.
Come si fa a dire alla gente che tutto va bene e che è in atto la gran revolucion venezolana quando c'hai 20000 e rotti omicidi l'anno su 24milioni di abitanti? Cosa cazzo chiami revolucion? le ville dei tuoi accanto alle baracche dei più? i rapimenti quotidiani e di poche ore dei figli della media borghesia a cui chiedono un paio di mille dollari per rimettergleli sotto casa (se va bene)? i comprensori degli appena-benestanti circondati di filo spinato e guardie armate? le scuole inesistenti e le università alla fame?
La gente che ho avuto il privilegio di incontrare è splendida, un po' meno diversi italiani che vivono e prosperano in loco, tirando coca e fregature a tutti meno i parenti stretti. Ho visto il paradiso terrestre, con accanto un cementificio, flora e fauna spettacolari, persone che si ammazzano di fatica con enorme dignità, per ottenere pochissimo, ma senza smettere di sperare. Ho conosciuto un uomo, giovane, intelligente, non particolarmente istruito, vende macchine usate e nuove, mi ha dato la miglior lettura di ciò che vedevo: "vede signora, la rivoluzione socialista, quella l'ha fatta Castro, dopo due giorni ha mandato tutti a scuola. Quella è la rivoluzione. Qui ti danno la borsa di studio, poi nessuno controlla se a scuola ci vai e non controlla nemmeno se c'è la scuola".
All'aeroporto, tappezzato di mega schermi al plasma (tutti gli aeroporti sono così anche quelli piccoli) che trasmettevano Chavez inframmezzato dai vari Mario Merola locali, (el orgullo nacional!!!) continuavo a chiedermi quanto noi, qui, ci avremmo messo a diventare così. Intanto però non vedevo l'ora di tornare, perchè anche l'Italia, vista da lì, sembra la Svezia.

martedì 22 giugno 2010

Viajando viajando



Sono in Venezuela cari i miei 2-3 lettori... il perché e il percome ve lo racconto appena riesco ad avere una connessione decente per un tempo altrettanto decente. Sappiate che: non sono in vacanza, ma va bene lo stesso, piove e ripiove, ma va bene lo stesso, è tutto un po' surreale e forse va così bene proprio per questo.

sabato 5 giugno 2010

Il cielo


Oggi il cielo di Roma è di questo colore, ci sono anche le rondini che si chiamano tra le antenne, e un po' di vento. Tutto ha il sapore di una promessa estiva, di un giorno da guardare sorridendo. Un giorno nel quale puoi dimenticare i calci presi di recente e quelli che arriveranno a breve. Oggi è possibile pensare solo agli occhi di chi ti guarda con amore, al sorriso delle persone e forse al mare che sta poco più in là. Oggi il resto non conta.

martedì 25 maggio 2010

E poi si torna


presa da qui


E' quasi un mese che la vita mi tiene lontana dal blog. Una pausa, nessuno spazio lasciato al ludico, al fine a sé stesso, solo un periodo di alta acrobazia esistenziale per cercare di restare diritti.
Un po', come al solito, è colpa mia, è vero che, citando un amico, io amo le cose impervie, che se sono su di una strada, dritta e libera, comincio a far curve per conto mio, ad arrotolarmi su me stessa sprecando spesso grandi quantità di energia. L'unico vantaggio è che non mi annoio mai.

Sono stata per strade impervie anche in questo periodo, ancora le percorro e sempre, credo, le percorrerò; anche quando tutto sembra andare liscio, esser semplice e lineare, a me viene incontro una qualche complicanza. Sono spesso calamita di guai, so di andarmeli a cercare. Più è folle la sfida, più incasinata la situazione, sia umana che di studio, più me ne sento attratta e stimolata. Ok, va bene, sento la vocetta del solito materialista storico, pragmatico e terreno, che stigmatizzata quanto appena detto come "cercare rogna". Va bene se vogliamo è così: io vado cercando rogna. Anche quando di rogne non ce ne sono, anche quando potrei mettermi lì tranquilla a godermi l'andare, mettere una bella musica on the road e guidare serena, io creo l'arzigogolo, mi intorcino tra i neuroni e mi agito. Mi sono chiesta spesso perché, cosa mi conduce a trasformarmi in ufficio complicazioni affari semplici, ad incartarmi nei garbugli. Mi sono detta "sei una drogata di adrenalina" e questo forse è un punto, ma c'è qualcosa di più, qualcosa che va al di là di una più o meno conclamata tossico-dipendenza.
Una chiave di lettura l'ho avuta qualche sera fa a cena con uno dei miei fratelli. Siamo partiti dal racconto di un fatto recente. Mio fratello aspetta un figlio (o figlia non sappiamo ancora), dalla sua nuova compagna (facendo di me una felice zia). Qualche giorno prima aveva voluto dare la notizia al primo figlio avuto dalla precedente compagna. Si era macerato, arrovvellato e straziato, ricordando quando lui ricevette l'annuncio dell'arrivo di nostro fratello (in seguito molto amato), annuncio fatto da nostro padre in modo, come dire, abbastanza goffo. L'augusto nostro genitore, cercando di rassicurarci, invece semplicemente di dire che arrivava un nuovo membro della famiglia Farlocchissima, anche se non di stessa madre, cominciò ad elencare tutte le paure che non dovevamo farci venire. Ovviamente, dato che il cervello umano rifiuta le negazioni, a noi vennero tutte le paure possibili, comprese quelle a cui non avevamo mai pensato.
Così mio fratello si accinge a dare l'annuncio, con aria grave e compresa della parte, spiega la cosa al figlio, pone grande cura nella scelta delle parole, attento a creare una giusta atmosfera (nonostante le gocce di sudore che gli imperlano la fronte), parla in tono calmo e serio, rassicurante al suo massimo. Ora mio nipote, per quanto figlio di genitori complicati, è un ragazzino sereno, amato da tutti, compresa la tenerissima compagna di suo padre, seguito e apprezzato dalla numerosa schiera familiare. Quindi è abbastanza sicuro di sé e non dubita dell'amore che lo circonda, inoltre di "demi-frère" (scusate mi piace più dell'italiano fratellastro), già ne ha uno da parte di madre. All'annuncio dell'arrivo di un fratello/sorella ha sorriso ampiamente "Ahaa, meno male pensavo fossi incazzato per la verifica d'inglese [NdR andata malino].. un fratello/sorella è una figata!" (la creatura ha 11 anni e parla così). Mio fratello, dunque, aveva fatto curve su di una strada dritta, si era fatto venire l'ulcera, sudato otto secchi d'acqua, per qualcosa che non era un pericolo. Per un problema che lui, con il suo comportamento da genitore attento e affettuoso, aveva già risolto prima ancora che si creasse. Da questo siamo passati ad elencare situazioni da sterzate e uscite di strada inutili, nostre passeggiate per metaforici fossi che non servivano a niente. E così siamo finiti a rievocare storie di famiglia, storie fatte di disattenzione e goffaggine sparpagliata, di personaggi violenti e ostili, magari per troppa sofferenza loro, che hanno popolato la nostra infanzia ed adolescenza.
E così, mentre si parlava, ho smesso di sentirmi un caso particolare, quel fare curve inutili, quel complicarsi inutilmente la vita è un tratto caratteriale comune. Un imprinting che viene dalla storia familiare. Eh sì, perché se cresci nel casino costante, in una famiglia d'intellettuali distratti e un po' egocentrici, dove per esser visto devi ululare la tua esistenza se no ti passano sopra con la ruspa, come fai a pensare che una strada dritta sia semplicemente percorribile così com'è? come fai a vivere quietamente se non sai cosa sia la quiete?


domenica 23 maggio 2010

Ricordi*



Ieri ho ricordato con alcuni amici, brevemente e con intensità qualcuno che è andato via decisamente troppo presto. Mi hanno dato qualcosa per ricordare, tra cui questa canzone. Ma ci sono cose che non si possono dimenticare, assenze e dolori di altri che ti colpiscono così forte che diventano tuoi, perché quel qualcuno, in un modo o nell'altro, è parte della tua vita, del grafo delle tue relazioni importanti e allora se qualcosa lo colpisce, se il cielo gli cade sulla testa, come temeva Obelix, tu non puoi ignorarlo e insieme a lui ricordi.

* per JF e GF

venerdì 30 aprile 2010

Comunicazione di servizio




La Farlocca lavora troppo, nel poco tempo libero, si da allo sport, quindi: non ce la fa a scrivere e non ditemi di farlo che mi ci mancate solo voi a far pressioni... Per comunicazioni personali non usare, per favore, i commenti bensì farlocmuse@gmail.com.

Buon primo maggio :-)

lunedì 19 aprile 2010

Quando bisogna decidere


Ultimamente passo così tanto tempo a lavorare che mi sembra la vita contenga solo lavoro. Certo amo quel che faccio, per me è il lavoro più bello del mondo, ma non tutto quel che c'è da fare è parte di questa bellezza. Il lato creativo, tecnico, immaginifico, è la bellezza, quasi tutto il resto è pura rottura di palle. Sappiamo tutti che siamo in un periodo di crisi, che le cose stanno cambiando a rotta di collo, che la sopravvivenza di ciò che era scontato fino all'altro ieri non è più garantita. In questa immensa incertezza che ci avvolge io sono tra quelli che sono abbastanza contenti, non perché approvi le scelte di governo o la situazione in sé, è solo che credo-spero sempre che avesse ragione Mao Tse Tung quando diceva Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente. Nel gran casino si apre la possibilità per il cambiamento. La rivoluzione, il ritorno della fenice, son tutte cose che nascono dal caos o da ciò che è percepito come tale. Insomma mi faccio prendere da un bell'attacco di ottimismo in mezzo alla caciara. E' pur vero che per trasformare il citato caos in nuovo ordine occorrono immense energie, sopratutto qui da noi. Infatti viviamo in un sistema ad altissima inerzia. Ad esempio, avete fatto caso al fatto che in questo paese, in qualunque realtà ci si trovi, quando c'è da decidere qualcosa si mette su una commissione? Esistono commissioni per qualsiasi cosa, incluso il cambio della carta igienica al cesso. Ora un piccolo gruppo di persone può effettivamente dare un buon contributo ai processi decisionali, la discussione avviene tra pochi anziché tra orde barbariche disordinate, magari si riesce davvero a condurre un'analisi delle situazioni e a capirne vantaggi e svantaggi, è possibile che nell'ambito ristretto il livello di conflittualità sia più basso che in situazioni più ampie. Tutto questo in teoria. In realtà le commissioni sono spesso un modo per fare melina, per prendere tempo e dato che siamo qui e non a Copenhagen, diventano luoghi di scontro feroce dove ci si mena in 3-4 anziché in 25.
Orbene, al momento mi hanno infilato abbastanza a forza in un paio di commissioni, hai voglia a dire "ma lasciatemi perdere, io sono un tecnico, ma fatemi fare quel che so fare..." etc etc, dato che di solito ti hanno visto non prendere per la gola la gente, condurre analisi piuttosto oggettive e dato che son pure convinti tu sappia cose che altri non sanno (cfr. qui), ti mettono dove non vorresti stare: la commissione somme rotture di palle.
La compagnia è interessante, abbiamo una selezione dei tipi umani migliori, la brava persona che però è affetta da pessimismo cosmico, per cui tutto-andrà-malissimo-lo-so e questo qualunque cosa si dica o faccia, l'indeciso pavido, tipologia assai diffusa, una di quelle persone che hanno paura anche ad attraversare la strada da sole, che ha dubbi amletici sul colore dei calzini la mattina e che su di essi pontifica con piglio sicuro, il dirigente che di codesta congrega avrebbe fatto volentieri a meno, ci si trova in mezzo solo perché se no gli triturano le palle a tal punto che non riuscirebbe più nemmeno ad andare a far pipì, ti ha anche detto che uno dei tuoi compiti è evitare che metta mano al coltello a serramanico, tu devi dargli un calcio, fare dei segni, bloccarlo con presa judoistica nel caso ti renda conto che sta per trascendere, lui ha promesso di fare altrettanto con te se vede che il tuo colorito va sul fucsia e la giugulare si gonfia. Abbiamo poi la ciliegina sulla torta: il cretino figlio di buona donna, quello che ha capito tutto, un cavallo che qualche Caligola ha messo nel senato, un incompetente con l'ampiezza di visione di un topo miope e che ha pure la forfora.
Fino a ieri ero semplicemente sconfortata da questo fatto, poi ho fatto visita a London Alcatraz e ho trovato questo post e mi sono tirata su di morale. Grazie Yoss, grazie Rachel, ora finalmente so dove posso mandare tutta la commissione in vacanza.


mercoledì 7 aprile 2010

Barbie

Tanto tempo fa, ma tanto che quasi non si ricorda più, ero un'adolescente, sovrapeso, disperata, scombinata ed estremamente sfigata. All'epoca avevo un'amica che di sostanzialmente diverso da me aveva solo che era secca come la morte dei tarocchi, per il resto viaggiava sulla stessa onda. Certe sere ci trovavamo sole a casa sua e parlando dell'ennessimo due di picche maschile, dello sberleffo del compagno e della disattenzione al cubo genitoriale, per tirarci su, giocavamo a barbie la reginetta del ballo accompagnando il tutto con sostanze attive di vario genere. Codesta pratica ce la portammo anche nell'età adulta e per molti anni, al vertice della disperazione, tiravamo fuori la scatola e sghignazzando, aggiungendo qualche sostanza psicotropa, tanto per ricordare i vecchi tempi, giocavamo a barbie la reginetta del ballo.
Poi finì anche quel rapporto e addio barbie la reginetta. D'altra parte mai mi ero sentita barbie, mai la reginetta del ballo. Al massimo mi sentivo il capo criceto sulla ruota che vorticava. Questo fino ad oggi. Oggi siore e siori, mi sento la reginetta del ballo. Le mie simulazioni numeriche fanno meraviglie (cfr. qui per capire l'antefatto), gli amici sono speciali e mi coccolano, viaggio come una trottola allegra ed anche il cuore è contento (forse a giorni alterni). Magari domani non sarà così, magari domani mi prendono a calci come esco dal portone di casa e scopro un baco nel codice, ma chissene, oggi vado a ballare con ken e c'ho il vestito verde che era il più bello di tutti.

martedì 23 marzo 2010

Da lì a qui ....


Pochi giorni fa passavo sotto questo ponte. Si sa, New York è come una calamita per me, vado negli States non importa a far cosa, ma lì ci devo passare. Devo percorrere le strade di Manhattan, a far nulla, a guardare, a pensare e a sognare, devo se no il viaggio è incompleto. Così anche se avevo da fare, ad un certo punto, ci sono andata. Mi sono lasciata abbracciare da una giornata di quelle straordinarie, da un cielo terso e blu, dalla folla per le strade, dalla parata del Saint Patrick Day, dalla bellezza kitsch e assurda del giorno in cui tutti sono irlandesi. Il giorno in cui tutti indossano qualcosa di verde, magari degli shorts-bordo-culo, su di un culo da un quintale, magari anche nero, con su scritto "Kiss Me, I'm Irish", o una parrucca di prestigiosi boccoli verde marziano, con sotto un ragazzino di 15 anni ubriaco che se lo ricorderà pure a 90 anni come stava il giorno dopo. E che dire delle cornamuse? e io che pensavo fossero solo scozzesi... ma a San Patrizio si suonano uguale.
A parte la parata, il casino e gli ubriachi, la città era meravigliosa, ho camminato quasi sei ore ininterrottamente, vagato per strade e parchi, ho alimentato l'anima e gli occhi con le prime gemme di primavera sui rami di Central Park, insomma mi sono fatta un regalo da regina.
Poi torni a lavorare e arriva un venerdì sera e il regalo me lo hanno fatto gli amici: serata newyorchese con tutto quel che ci vuole. Dopo tutto il sabato risali sull'aereo, bisogna fare le cose per bene e salutare degnamente il nuovo mondo prima di tornare al vecchio. Così cena, teatro e cognac dopo teatro, compagnia speciale e poi, si riparte alla volta del patrio suolo.
Stavolta, ve lo confesso, sull'aereo mi è venuto da piangere. L'aria statunitense è piena di speranza, di vita che risale, di gente che fa e vuol fare. Tornare qui dopo quasi un mese di quell'aria fa sentire tutto il peso di quel che ci aspetta, della fatica presente in ogni cosa, se, anche noi vogliamo, un giorno di questi tornare a sperare.
Così oggi sono qui, sono tornata al lavoro, anche domani tocca, e la notte è lunga e il sonno non viene. Il mio fuso interno è ancora là, ci mette sempre un po' a mollare la presa. Guardo fuori dalla finestra, vedo la città, l'altro grande amore mio, Roma. E' bello andare da un amore all'altro, da lì a qui, da un gran casino di cemento ad uno di mattoni rossi. E' bello tornare a casa, vero?




venerdì 19 marzo 2010

Only for cat lovers



E non dico altro....

venerdì 12 marzo 2010

Uno di quei giorni...


Ci sono quei giorni che ad un certo punto cominciano a prendere una piega "sbagliata". Intendiamoci io non credo alla sfiga cosmica. Di solito diamo un possente contributo alla medesima con le nostre azioni. Però qualche volta un dubbio mi viene. Prendiamo ad esempio la giornata che sta per chiudersi, qui da me sono quasi le 11pm, in Italia sono quasi le 5am, quindi per voi altri è bello che cominciato il nuovo giorno, ma per me ancora no.
Analizziamo serenamente la giornata:
  • Sveglia intorno alle 6:30 ora locale, preparazione del caffé e della colazione con contemporanea accensione del computer.
  • Plin da skype. Cose lavorative italiane da considerare. Un "già che sei lì" di qualche furbastro che fa finta di ignorare il fuso orario.
  • Bestemmia che non viene riprodotta in chat, mi occupo delle rogne italiane e faccio colazione.
  • Lavoro a un programma che deve fare certe cose e non le sta facendo, anzi mi spernacchia fuori dei risultati talmente brutti che alle 7:30 già mi viene da piangere.
  • Ri-plin da skype. Stiamo organizzando un viaggio di lavoro, il mio collega e amico con cui devo partire mi cerca per comprare i biglietti on-line sul sito alitalia. Il sito non accetta la mia carta di credito, controllo la disponibilità e ce n'è quanta ne voglio. Soprassediamo.
  • A fine mattina, con le pive nel sacco per quanto riguarda il software, vado a raggiungere gli americani. E qui c'è una parentesi gradevole, tra discussioni di lavoro e pranzo con risate.
  • Rientro in ufficio, arriva un'email. La riunione telematica che si doveva tenere non si può tenere per ragioni che non mi è dato sapere. Il dio della burocrazia ha deciso che per decidere quel che c'era da decidere, non sarebbe abbastanza legale farlo per via telematica. Mi sostituiranno nel gruppo che deve decidere. Annuisco allo schermo e rispondo che per me va bene anche se non capisco perché.
  • Arriva un'altra email, l'e-shop di libri a cui ho ordinato un regalo per un amico non lo trova e mi cancella l'ordine. Annuisco allo schermo.
  • Continuo a lavorare, a combattere con il codice, con l'ambiente di programmazione che sto usando, a dare la testa nel muro. Si fanno le 8pm e non ho risolto un cazzo.
  • Faccio caso alla mancanza di comunicazione con un paio di persone a cui voglio bene. Mi intristisco, anche parecchio ad essere onesti.
  • Passa uno degli americani, il mio preferito, e andiamo a mangiare qualcosa, siamo lessi, ma veramente lessi. Però mi tiro un po' su di morale.
  • Mi riporta alla macchina, guido in trance sotto un'acqua battente fino ad approdare al residence dove sto. Non trovo la chiave della stanza. Ho la visione della medesima sul tavolo dell'ufficio (contributo alla sfiga numero 1). Vado al front desk, aspetto che finiscano un check in, mi faccio fare una copia della chiave (magnetica).
  • Entro nella stanza e penso "finalmente...." (sospiro). Mi rendo conto di avere le scarpe piene di fango, sono finita in un'aiuola andando alla macchina. Bene, che sarà mai! prendo un bel po' di carta e le pulisco, appoggio il malloppo schifoso di lato e mi giro con movimento evidentemente sbagliato, il malloppo cade nella tazza e neanche me ne rendo conto. Tiro l'acqua (contributo alla sfiga numero 2). Si ottura la tazza.
  • Piango? non piango? no non piango. Da sotto il lavandino prendo lo sturalavandini. Lo uso e non succede assolutamente nulla. Piango? ... no non piango. Echecazzo siamo negli States no? c'è qui accanto il supermarket aperto 24 ore, vado. Piove. Entro e passo mezz'ora a leggere le etichette di tutti i liquid plummer (idraulico liquido), extra-super-powerful clogs removal (extra-super-potente elimina intasamenti) che riportano immancabilmente la scritta "do not use in toilets". Piango? no non piango, ancora je la posso fare. Vado al front desk, parliamo, pensiamo, cerchiamo del fil di ferro, non lo troviamo, ci rassegnamo. La signorina, gentilissima, mi dice "cerco una stanza libera e le do la chiave, lei vada su che la chiamo appena trovo". Vado.
  • Entro e vado in bagno, guardo la tazza, guardo lo sturalavandini, ci fissiamo intensamente e "no non la puoi avere vinta tu!" acchiappo lo sturalavandini e per 10 minuti buoni faccio del sano esercizio fisico.
Avete idea di cosa sia la gioia pura? io adesso sì: una tazza otturata che di colpo si stura alle 11pm di una giornata di merda.




sabato 6 marzo 2010

Lontano da

Sono le nove di sera di un venerdì americano. Sono qui da qualche giorno, a lavorare; niente vacanze al momento, solo l'intensità del lavoro con altri e del poco tempo a disposizione. Sono le nove di sera qui, in un altro mondo, in un luogo così lontano dal mio quotidiano, da sembrarmi un altro pianeta. Eppure ci sono venuta spesso in questo paese. Ma qui, in questa città, erano tre anni che non ci venivo. Sono qui a chiudere un cerchio, un mandala fatto di eventi impensabili, un oggetto creato dall'improbabile più che dal probabile. Un oggetto fatto di minuti, ore, giorni, anni, che sono trascorsi da allora e hanno fatto di me, oggi, qualcosa che non si poteva immaginare tre anni fa.
Cammino tra i boschi, guido per queste strade, parlo con le persone di qui. Come tre anni fa, con la stessa voce, gli stessi occhi, eppure è tutto diverso. La casa a cui tornerò è un'altra, gli amici a cui tornerò sono diversi, anche coloro che sono qui hanno vissuto cambiamenti straordinari, per loro come per me, chi contava non conta più e chi sembrava non poter mai essere vicino, ora lo è, o almeno così sembra.
Il mandala si completa, i granelli di sabbia colorata che lo compongono stanno andando al loro posto. Resteranno là, nel disegno di ciò che è stato, fino al soffio di vento che li riporterà al loro essere solo sabbia. Altri granelli già scorrono tra le dita, vanno, con il tocco dei minuti presenti, a comporre la nuova immagine, quella di cui ancora non so neppure intuire il colore.

presa da qui

sabato 20 febbraio 2010

Epoche e assenze



Come avranno notato i miei 4 lettori, la Farlocca ha decisamente da fare da qualche tempo. La stanchezza serale toglie spazio all'ispirazione scribacchina. E' questa un'epoca di grandi trasformazioni, sia dentro l'anima che intorno. Il reale ha preso il sopravvento sul virtuale, è forse meno poetico, è faticoso, ma ha una sua bellezza. Quell'incanto dato dal sapere che è un tempo questo in cui i sogni possono essere concretizzati. O almeno una loro ragionevole approssimazione.

Si desapareció
en mi aparecerá
creyeron que murió
pero renacerá
Llovió, paró, llovió
y un chico adivinó
oímos una voz, y desde un tango
rumor de pañuelo blanco
No eran buenas esas épocas
malos eran esos aires
fue hace veinticinco años
y vos existías,
No eran buenas esas épocas
malos eran esos aires
fue hace veinticinco años
y vos existías, sin existir todavía
Si desapareció
en mi aparecerá
creyeron que murió y aquí se nace,
aquí la vida renace
No eran buenas esas épocas
malos eran esos aires
fue hace veintinco años
y vos existías
No eran buenas esas épocas
malos eran esos aires
fue hace veinticinco años

y vos existías, sin existir todavía

(Gotan Project - Epoca)

lunedì 8 febbraio 2010

La Farlocca va in Germania

La Farlocca, tra i vari fratelli-sorelle che ha, ne ha uno scienziato, giovane e quindi, come ovvio, in fuga dall'Italia. Dato che il senso della famiglia è assai sviluppato nella famiglia farlocchissima, ella si è recata a trovare il citato fratello. Parte vagamente preoccupata di trovarlo in stato di abbandono, di malinconica vita da uomo solo, magari in una casa iper-accroccata in un quartiere di serie C... Precisiamo che Farlocca non sa una parola di tedesco, con il nordico paese non ha mai avuto molto a che spartire ed è anche parecchio scettica riguardo alla bellezza del luogo e/o alla possibilità di vivere bene in esso. Parte, dunque, sale sul primo aereo, cambia, si inoltra nel nord del paese, sorvola luoghi gelidi, giunge in mezzo alla neve e al gelo. E trova un sorridentissimo giovane scienziato che se la vive piuttosto bene. La casa è molto molto carina, ben arredata anche se ancora incompleta, il ragazzo si nutre decentemente, frequenta alcune persone e sta imparando il tedesco. Farlocca è ovviamente contenta. Nel tragitto stazione-casa comincia a guardarsi intorno, si fa spiegare il senso di quelle parole lunghe 20 cm che vede scritte qua e là, bestemmia un po' perché neanche alla stazione o all'aeroporto ci sono molte indicazioni bilingue, ma dato che se la cava comunque è contenta.
Poi comincia a scoprire che in quella città sperduta e senza particolari attrattive, si usa il teleriscaldamento. Una centrale di calore che serve un intero quartiere, annusa l'aria e si rende conto che è pulita. La gente usa i mezzi pubblici dato che può farci affidamento. La gente è sorridente anche se fa -5 gradi celsius. Certo loro sono abituati, ma -5 è freddo fottuto pure per loro. Si fa raccontare e capisce che la natura intorno è molto bella, certo al momento c'è il pack sui marciapiedi e lei invoca i rampini da ghiaccio, ma con un po' d'attenzione cade, molto elegantemente, una sola volta.
Poi c'è l'università, è bella porca miseria, ma proprio bella. Non è lussuosa come certe università americane da lei frequentate, ma di domenica se si va lì in un dipartimento, il server centrale funziona, è tutto pulito, spartano e funzionante. Non c'è nemmeno bisogno delle guardie armate che infestano tanti campus universitari in giro per il mondo. Per tornare a casa si passa per un parco, a parte il pack su cui dover camminare, a Farlocca viene una botta di panico: "ma è notte!! che sei matto a passare per il parco!!!" "Tranquilla, soré, qui un parco è solo un parco, non un girone infernale.... a parte che co' 'sto freddo si congelano pure i tossici..." camminando come sulle uova in effetti attraversano il parco, che è solo un parco, con cani a spasso, gente che cammina (pattina?) e va serena per i fatti suoi. Fanno vita normale, passeggiano nel gelo, Farlocca e fratello, chiacchierano, Farlocca impara anche qualche parola, lui le spiega la struttura della frase in tedesco: complemento oggetto alla fine etc. Farlocca capisce perché i tedeschi sono educati e lasciano parlare, se l'interlocutore non finisce la frase non capirai mai di cosa sta parlando. La gente è socievole e gentile, non sono come i bavaresi unica precedente esperienza (pessima) tedesca. Se parlano inglese fanno conversazione volentieri, altrimenti danno indicazioni anche a gesti e sghignazzando (cfr. richiesta di informazioni all'aeroporto).

Dopo qualche giorno Farlocca torna a casa, nel sud dell'Europa, si dice che il clima è migliore, che a Roma non fanno -10 Celsius come lì da dove sta partendo, ne fanno +10 di Celsius.... pensa pensa ma questo è proprio l'unico vantaggio che le viene in mente.