E' l'alba di un giorno americano del 1999. Il sole comincia a sbucare da dietro le cime degli alberi che circondano il comprensorio in cui vivo a Houston. C'è silenzio intorno, qualche uccello canta, qualcuno esce per andare a correre sull'argine di quella specie di marana che delimita un lato della proprietà. Anche io sto per uscire. E' un fine settimana, sabato, ci sarebbe l'allenamento da fare, ma oggi non ne voglio sapere. Oggi ho affittato una macchina, l'ho presa ieri sera e, per mia grande fortuna, dato che non avevano il modello base che avevo prenotato, mi hanno dato un modello superiore allo stesso prezzo. Una Jeep Cherokee rossa fiammante, con stereo futuristico e tanti di quei comandi sul cruscotto che mi servirebbe un dottorato in ingegneria elettronica per capire a che servono. Stamattina parto. Non ho una meta precisa, so che ci sono dei posti belli verso Austin, la città stessa vale la pena di una visita. Poi c'è San Antonio e ci sarebbe anche Dallas, ma l'ho già visitata e mi ha, sinceramene, fatto schifo. Forse perché là sono andata anche per lavorare ed ho avuto modo di entrare in contatto con l'élite del luogo, bigotta, meschina e priva di cultura. Mai stata così a disagio negli Stati Uniti come in quel caso. Il momento peggiore è stato una cena tra maggiorenti locali ed accademici-intellettuali della Southern Methodist University e della Dallas Baptist University. Fu una serata in cui l'unico modo per non creare una rissa, fu stare zitta e rispondere a monosillabi solo se direttamente interrogata. Allontano dalla mente il ricordo, non vale la pena rievocare quel senso di rabbia e frustrazione; mi aspettano le strade del Texas, la natura splendida e la libertà assoluta di un viaggio da sola.
Salgo in macchina, studio un po' le istruzioni, capisco cosa è meglio non toccare e cosa mi può essere utile, sono pronta parto, direzione Austin. La strada è a 4 corsie, enormi SUV, qualche grossa moto con pittoresca fauna locale a bordo e molti grandi camion mi accompagnano. Accendo la radio e gioco tra una stazione country e una di jazz, passando per un po' di rock assortito. Imbocco la 290. Non è l'itinerario più veloce, è una strada statale più stretta, dell'autostrada ma passa attraverso splendidi paesaggi. Macino chilometri, il senso del viaggio è questo negli Stati Uniti, almeno per me. E' davvero il paese in cui ha più senso il percorso che l'arrivo. Si annuvola e una pioggia leggera comincia a cadere. E' l'inizio della primavera qui, siamo all'inizio di marzo, non fa caldo e i prati si coprono di piccoli fiori blu. Lungo la strada incontro campi, aree in cui ancora vivono branchi di bisonti. Mi fermo a guardarli mentre, quasi immobili, brucano sotto la pioggia. Dopo un po' sono all'altezza della cittadina di Carmine e lo sguardo mi cade su di un cartello: "Goat cheese - 2 miles". Giro per il viottolo di campagna e lo percorro. Arrivo ad una fattoria e mi fermo. Mi arrivano incontro 4 ragazzini dai 13 ai 5, forse 6 anni, mi salutano e chiamano la madre. Arriva una donna minuta, bionda e sorridente, in jeans e maglione. Iniziamo a parlare, chiedo informazioni sul formaggio di capra e dopo poche parole la signora passa ad un perfetto italiano. Lei e il marito hanno vissuto quasi dieci anni a Genova, poi si sono stancati della vita che facevano, era anche nato il terzo figlio. Così hanno venduto casa, mollato i rispettivi lavori e si sono comprati questo pezzo di terra, dove coltivano varie cose e fanno formaggi. Arriva anche il marito, con la sua aria da americano in salute, ha un bel sorriso, i capelli scuri e due occhi sottili e chiari alla Clint Eastwood. Trascorro un paio d'ore con la famiglia, assaggiando formaggi e pontificando sulla vita in generale, saltellando tra italiano e inglese come se fossero una sola lingua. Saluto tutti e riparto con formaggi di capra al seguito. Dopo ancora qualche ora arrivo ad Austin. Trovo un hotel da pochi soldi e mi fermo. Austin si può girare a piedi, cosa rara per le città americane, qui si trova una delle più grandi università statali degli USA, a camminare per le sue strade si ha l'impressione che l'età media sia vent'anni. Mi sento vecchia mentre continuo a girare per tutto il giorno. Chiacchiero con camerieri di ristoranti e baristi, mi faccio indicare un qualche locale dove ci sia musica dal vivo per la sera. Trascorro la giornata a vagare per le strade, a percorrere il lungo fiume e a ficcanasare per la zona universitaria. Arriva la sera e noto che, come spesso accade nei paesi di cultura anglosassone, essendo sabato, il tasso alcolico per le strade è piuttosto alto. Mi dirigo verso una sorta di pub dove servono cucina texana, suonano blues e brani di Steve Ray Vaughan a cui è anche dedicata una statua in città. La musica è buona, il suono caldo e la voce della cantante morbida e struggente. Ascolto godendomi ogni sensazione: i suoni, il cibo che è ottimo, i rumori di fondo. Mi sento in paradiso in mia compagnia. Non ho fatto però i conti con l'ubriachezza molesta locale e con il fatto che sono una donna sola ad un tavolo di sabato sera in una città americana (che non è New York). Nel giro di mezz'ora ho dovuto scacciare almeno tre ubriachi molesti, il quarto me lo leva di torno quasi di peso il cameriere. Non è che io sia una fata, è che donna-sola-sabato-sera-in-locale-pubblico=vuole-rimorchiare, almeno nel linguaggio non scritto del luogo. Quando il cameriere mi consiglia di andarmi a sedere ad un tavolo con altre ragazze (peraltro palesemente sbronze pure loro) al fine di evitare altri incidenti, mi alzo e vado in albergo. Sdraiata sul letto alle 10:30 di un sabato sera mi assale quel senso di rabbia e frustrazione che ho spesso provato nei miei viaggi solitari. Ripenso ad Atene dove, alle 9 di sera, mi sono dovuta barricare in camera a causa di un altro ospite dell'ostello, giovanotto tedesco, per altro sobrio, che dopo un po' di chiacchiere (neanche tanto amichevoli dato che non mi era simpatico) s'era rapito d'amore (non corrisposto) per me. Ripensavo al meccanico di quella sperduta cittadina sui monti Appalachi che, pochi anni prima, si sentì autorizzato a farmi complimenti molto pesanti, solo perché viaggiavo sola (lo precisò lui nemmeno fosse un siculo dell'entroterra di Caltanisetta negli anni '50) o al tipo, conosciuto per caso a casa di amici a Parigi, che al primo appuntamento mi diventò aggressivo perché gli ricordavo la ex-moglie (mi diede una spinta e io lo mollai in mezzo a Boulevard Saint Michel saltando su di un taxi).
Per quanto una sappia cavarsela, per quanto una possa sapersi difendere, ad un certo punto deve sempre soccombere a questa logica perversa: per evitare guai deve ritirarsi. E' una regola generale, in qualunque contesto, una donna da sola è meglio se evita l'aggressività maschile, è meglio se non si espone a rischi inutili, anche se saprebbe menare ad un tizio alto il doppio di lei, comunque il risultato non è garantito.
Cerco di scacciare il disagio, in fondo domattina all'alba io sarò sulla strada per Fredericksburg, diretta all'Enchanted Rock State Natural Area. Ecco invece quei quattro stronzi ubriachi del locale avranno solo mal di testa. Mi giro e dormo in pace.
Continua....
Salgo in macchina, studio un po' le istruzioni, capisco cosa è meglio non toccare e cosa mi può essere utile, sono pronta parto, direzione Austin. La strada è a 4 corsie, enormi SUV, qualche grossa moto con pittoresca fauna locale a bordo e molti grandi camion mi accompagnano. Accendo la radio e gioco tra una stazione country e una di jazz, passando per un po' di rock assortito. Imbocco la 290. Non è l'itinerario più veloce, è una strada statale più stretta, dell'autostrada ma passa attraverso splendidi paesaggi. Macino chilometri, il senso del viaggio è questo negli Stati Uniti, almeno per me. E' davvero il paese in cui ha più senso il percorso che l'arrivo. Si annuvola e una pioggia leggera comincia a cadere. E' l'inizio della primavera qui, siamo all'inizio di marzo, non fa caldo e i prati si coprono di piccoli fiori blu. Lungo la strada incontro campi, aree in cui ancora vivono branchi di bisonti. Mi fermo a guardarli mentre, quasi immobili, brucano sotto la pioggia. Dopo un po' sono all'altezza della cittadina di Carmine e lo sguardo mi cade su di un cartello: "Goat cheese - 2 miles". Giro per il viottolo di campagna e lo percorro. Arrivo ad una fattoria e mi fermo. Mi arrivano incontro 4 ragazzini dai 13 ai 5, forse 6 anni, mi salutano e chiamano la madre. Arriva una donna minuta, bionda e sorridente, in jeans e maglione. Iniziamo a parlare, chiedo informazioni sul formaggio di capra e dopo poche parole la signora passa ad un perfetto italiano. Lei e il marito hanno vissuto quasi dieci anni a Genova, poi si sono stancati della vita che facevano, era anche nato il terzo figlio. Così hanno venduto casa, mollato i rispettivi lavori e si sono comprati questo pezzo di terra, dove coltivano varie cose e fanno formaggi. Arriva anche il marito, con la sua aria da americano in salute, ha un bel sorriso, i capelli scuri e due occhi sottili e chiari alla Clint Eastwood. Trascorro un paio d'ore con la famiglia, assaggiando formaggi e pontificando sulla vita in generale, saltellando tra italiano e inglese come se fossero una sola lingua. Saluto tutti e riparto con formaggi di capra al seguito. Dopo ancora qualche ora arrivo ad Austin. Trovo un hotel da pochi soldi e mi fermo. Austin si può girare a piedi, cosa rara per le città americane, qui si trova una delle più grandi università statali degli USA, a camminare per le sue strade si ha l'impressione che l'età media sia vent'anni. Mi sento vecchia mentre continuo a girare per tutto il giorno. Chiacchiero con camerieri di ristoranti e baristi, mi faccio indicare un qualche locale dove ci sia musica dal vivo per la sera. Trascorro la giornata a vagare per le strade, a percorrere il lungo fiume e a ficcanasare per la zona universitaria. Arriva la sera e noto che, come spesso accade nei paesi di cultura anglosassone, essendo sabato, il tasso alcolico per le strade è piuttosto alto. Mi dirigo verso una sorta di pub dove servono cucina texana, suonano blues e brani di Steve Ray Vaughan a cui è anche dedicata una statua in città. La musica è buona, il suono caldo e la voce della cantante morbida e struggente. Ascolto godendomi ogni sensazione: i suoni, il cibo che è ottimo, i rumori di fondo. Mi sento in paradiso in mia compagnia. Non ho fatto però i conti con l'ubriachezza molesta locale e con il fatto che sono una donna sola ad un tavolo di sabato sera in una città americana (che non è New York). Nel giro di mezz'ora ho dovuto scacciare almeno tre ubriachi molesti, il quarto me lo leva di torno quasi di peso il cameriere. Non è che io sia una fata, è che donna-sola-sabato-sera-in-locale-pubblico=vuole-rimorchiare, almeno nel linguaggio non scritto del luogo. Quando il cameriere mi consiglia di andarmi a sedere ad un tavolo con altre ragazze (peraltro palesemente sbronze pure loro) al fine di evitare altri incidenti, mi alzo e vado in albergo. Sdraiata sul letto alle 10:30 di un sabato sera mi assale quel senso di rabbia e frustrazione che ho spesso provato nei miei viaggi solitari. Ripenso ad Atene dove, alle 9 di sera, mi sono dovuta barricare in camera a causa di un altro ospite dell'ostello, giovanotto tedesco, per altro sobrio, che dopo un po' di chiacchiere (neanche tanto amichevoli dato che non mi era simpatico) s'era rapito d'amore (non corrisposto) per me. Ripensavo al meccanico di quella sperduta cittadina sui monti Appalachi che, pochi anni prima, si sentì autorizzato a farmi complimenti molto pesanti, solo perché viaggiavo sola (lo precisò lui nemmeno fosse un siculo dell'entroterra di Caltanisetta negli anni '50) o al tipo, conosciuto per caso a casa di amici a Parigi, che al primo appuntamento mi diventò aggressivo perché gli ricordavo la ex-moglie (mi diede una spinta e io lo mollai in mezzo a Boulevard Saint Michel saltando su di un taxi).
Per quanto una sappia cavarsela, per quanto una possa sapersi difendere, ad un certo punto deve sempre soccombere a questa logica perversa: per evitare guai deve ritirarsi. E' una regola generale, in qualunque contesto, una donna da sola è meglio se evita l'aggressività maschile, è meglio se non si espone a rischi inutili, anche se saprebbe menare ad un tizio alto il doppio di lei, comunque il risultato non è garantito.
Cerco di scacciare il disagio, in fondo domattina all'alba io sarò sulla strada per Fredericksburg, diretta all'Enchanted Rock State Natural Area. Ecco invece quei quattro stronzi ubriachi del locale avranno solo mal di testa. Mi giro e dormo in pace.
Continua....
6 commenti:
mah! la prima sensazione è di sgomento....poi mi viene in mente che se leggevi meglio le istruzioni avresti trovato un tasto distruggi deficienti... sai una cosa? leggo con interesse i tuoi racconti americani cercando di capire perchè ti piace così tanto....ma immagino che certe cose bisognerebbe viverle in prima persona.....PS:io non sarei riuscito a chiudere occhio. V
ciao V., il perché mi piacciono tanto gli stati uniti forse non lo so nemmeno io. certo è che è un paese immenso, con così tanta gente che prima o poi qualcuno con cui andare d'accordo lo trovi e poi, nonostante tutto, è un paese in cui ancora hai l'idea che tutto sia possibile... :-)
Certo che se per andare d'accordo con una persona ti affidi hai grandi numeri, ti consiglierei l'India, hai visto mai???.
Ciao Farly, non averla a male
sono un pò stupidino.
Buone Vacanze
@paolo: mica lo so se ti ho capito... comunque io sono sempre per la cautela, in quasi tutte le situazioni.
meraviglia, Farly :-) non vedo l'ora di leggermi il seguito...quando tiri fuori questa piccola-grande vena alla bukowski-murakami che hai custodita nel profondo dell'animo, i tuoi scritti prendono un sapore unico, perchè inconfondibilmente pervasi dall'originale "spirito Farly" :-)
adò gilly che complimentoni che mi fai!! arrossisco :-D grazie appena ho la testa per scrivo la seconda puntata
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