Piccoli passi, impronte minute sulla sabbia. Una creatura ha lasciato un segno, una traccia con un piccolo strascico. Trascinava qualcosa, forse era un uccello, piccolo, che costruiva un nido di sterpaglia, là dietro le dune. L'occhio si sofferma, immagazzina le linee delle impronte a contrasto con le linee d'ombra disegnate dal sole sulla sabbia. "Ciò che noi vediamo delle cose sono le cose." dice Pessoa, cosa vediamo noi delle tracce delle cose? La mente cerca di rispondere e allora crea una storia minima che, qui sulla spiaggia, si conclude con il vento, ora più forte, che spazza via ogni ricordo del passaggio.
lunedì 30 marzo 2009
sabato 28 marzo 2009
giovedì 26 marzo 2009
Sulle mie impronte II*
* continua da qui
Sulla spiaggia, in inverno, tra sole e tramontana, continuo a chiacchierare con i due pensionati, mentre i loro cani mi saltellano tra le gambe e ci riempiamo di sabbia a vicenda. Il calvo ha una storia diversa dal suo compagno di pensione. E', come dice lui, "ordinario", ha fatto l'impiegato tutta la vita, una famiglia tranquilla con due figli ora lontani "So ragazzi studiosi, mo' c'hanno una trentina d'anni e qua che ce stanno a fà... così uno sta in Danimarca e l'altra, cor marito e i figli, sta in Norveggia... che poi boh... valla a capì, io a sto clima nun c'avrei mai rinunciato... ancora ancora a Danimarca, Copenaghen... ma a Norveggia... ", la moglie è morta poco prima che lui andasse in pensione, così quando ha smesso di lavorare è rimasto solo. Lo guardo e mi sembra di vedergli in fondo agli occhi tutto quel mare di tristezza in cui deve essere sprofondato allora. "Però, vede signorì, ce stanno l'amici de sempre. Io co sto disgraziato" e mette una mano sulla spalla del barbuto "ce passavo er tempo già da regazzino. Vivevamo vicini, annavamo a giocà sulla spiaggia insieme... e poi 'na bella mattina, che io me volevo ammazzà, questo me s'è presentato alla porta e me fa 'Oh, che stai a fà?' e io, che stavo cor pigiama alle 11 de mattina e facevo schifo che manco m'ero lavato 'che voi che devo da fà? stavo a annà ar Quirinale che m'hanno 'nvitato' e quasi je chiudo la porta che m'era sembrato scemo. Poi lui tira fuori da dietro la schiena 'na borsa de stoffa e dalla borsa sbucano ste du' capocette de cane" gli occhi gli si illuminano e indica i due cani che continuano a imperversare intorno a noi. "Me dice, 'io de bestie pelose nun ce capisco 'n cazzo, ma tu ce l'hai avuti i cani, se ne potemo prenne uno io e uno te, e tu me dai 'na mano a tirallo su ... a educallo... e me voj fa entrà che fa freddo!' e da quer giorno nun se semo più divisi.... come da regazzini...." Sorride, il barbuto guarda altrove, come se in fondo non volesse essere coinvolto in questa storia di solidarietà, di solitudine, "Aho, mo basta che me stai a fà venì a lacrimuccia! che dice signorì, je lo potemo offrì 'n caffè?" il calvo ridacchia e mi strizza l'occhio. Accetto il caffè che prendiamo in uno dei pochi chioschi aperti sulla spiaggia. Cominicamo così una chiacchierata-discussione che va avanti per qualche ora. Si parla di donne e uomini sopratutto, i due nullafacenti non me ne fanno passare una, tanto per cominciare mi chiedono che fa "de mestiere" l'uomo con cui sto, alla mia risposta sgranano gli occhi, "che vordì è 'n'artista? che paga lei l'affitto?" si scandalizza il barbuto. "Aho, e che je fa? pure se paga lei a te che te frega?" ribatte il calvo. "E no porca zozza! certe cose 'n'omo nun le po' manco sentì se è omo!" e parte un dibattito tra i due su cosa-sia-un-uomo. Io zitta non ho ne negato ne confermato. Me la godo questa scenetta tra "uomini all'antica" che dibattono in una lingua che non è ne italiano ne romanesco. "Un momento", intervengo, "ci sono artisti che guadagnano quello che vogliono, quindi perché dovrei per forza essere io a pagare l'affitto? e poi non viviamo insieme..". Mi squadrano "Naaa, er suo è morto de fame semo sicuri!" e tutti a ridere, dato che è vero mi unisco. Ai caffè seguono bibite mentre i cani si sono accucciati sporchi di sabbia e felici. Non posso neppure accennare a tirar fuori il portafogli, sono con due "omini" mica si possono far offrire qualcosa da me. Me li guardo, li ascolto, è un giorno strano, non mi sento attaccata o disturbata dai loro commenti, dal loro scuotere la testa, o argomentare, anche un po' sgangherato, sulle donne indipendenti e gli uomini imbranati-che-non-sono-più-come-eravamo-noi, dai loro "Eh no, mo' 'n'attimo... e va be' seee, però... ". Mi diverte il loro capire che io voglia un giorno solo per me e il non capire come mai il mio compagno non abbia nulla da dire in proposito, "Aho' ma manco 'na parola? gnente gnente?" non ci possono credere. Continuiamo a ridere, a scherzare e a raccontarci fatti e vicende, commentando tutto il commentabile fino all'ora di pranzo. Non accetto anche l'invito a pranzo, ora ho voglia di stare da sola, mi salutano con un'ultima battuta del barbuto "lei deve scappà!" che "signorì, senta a me: la maggior parte dell'omini so troppo scemi pe' capì il valore de 'na donna intelligente, ma a volte pure de una cretina, prima dell'età della pensione... scappi lei prima che lo faccia lui così se 'mpara! scappi sempre lei pe' prima!". Cosa che, è risaputo, io non ho imparato a fare.
Ecco vanno, quei due vecchi così diversi, con i loro cani bastardissimi e meravigliosi, con la loro storia e la vita che ancora gli resta. Io riprendo a camminare e intanto ripenso all'unica battuta detta da me che era stata accettata senza discussioni, una cosa molto banale, detta forse solo per arginarli un momento: C'è un tempo per ogni cosa. Avevano accolto la frase entrambi con aria grave, annuendo. Sì, c'è un tempo per gli artisti svagati, uno per trovare un porto sicuro, uno per dare, come uno per ricevere e sopratutto un altro tempo ancora, quello di star da sola a camminare sulla spiaggia.
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lunedì 23 marzo 2009
La porta
Roma stazione. Termini, così la si chiama. Il luogo dove termina un viaggio. Si arriva qui, la testa del treno si accosta al binario, l'animale di metallo si appoggia al marciapiede finale, si riposa. Dalle porte rigurgita persone, tante, sempre. Mille idiomi, dialetti, parole, storie, bagagli, reali e metafisici. Abito da queste parti e a volte, la domenica sopratutto, vengo qui dove c'è una bella libreria, tanti negozi sempre aperti e cose e persone da guardare. Non è un luogo particolarmente amichevole, le commesse e i commessi nei negozi non sono quasi mai gentili, tranne che in libreria. C'è forse troppo via vai, sono più occupati a controllare che nessuno rubi piuttosto che a dar retta a chi viene a comprare. In fondo, loro, passano buona parte della giornata sotto terra, non è cosa che renda socievoli. Eppure a me piace venire qui. Dopo la visita in libreria mi fermo alla testa dei binari a guardare il flusso di gente. Immagino destinazioni e storie, qualche volta mi si stringe lo stomaco mentre guardo i senza tetto sempre presenti, altre volte mi perdo nei volti delle persone che passano, ne osservo l'abbigliamento cercando di indovinare qualcosa di loro. La domenica non incontri quasi mai i viaggiatori da prima classe, la stazione è popolata di abiti non particolarmente eleganti, non ci sono che rari set di valige di marca, piuttosto borsoni e trolley da quattro soldi, jeans da bancarella e scarpe di finta pelle, dozzinali zatteroni e false scarpe hi-tech in pura plastica. Forse i ricchi non viaggiano in treno la domenica, o forse, scappano via troppo rapidi perché io possa notarli. L'estate i binari si riempiono di gente con le borse del mare e le ciabatte, se è sera hanno i piedi sporchi di sabbia e il naso bruciato dal sole, se mattina sono pallidi, allegri e portano sacchetti di plastica con il pranzo. In inverno incontro frotte di ragazzi con gli sci, fa freddo, però, quindi non resto mai a lungo. Gli odori si mescolano, dal caffé appena fatto dei chioschi, ai deodoranti, alle puzze umane e meccaniche, tutto si mischia, si confonde, creando un mostro olfattivo che non ha un'identità specifica, un alieno del naso che ogni minuto si rinnova sull'odore di fondo fatto di metallo e freni.
In realtà, più che il passaggio di umanità varia e variopinta, la cosa che mi attrae davvero verso Termini è l'edificio. Bianco, immenso, l'atrio (il dinosauro) con i suoi giochi di chiaro-scuro, gli archi bianchi dei lati, il contrasto con gli edifici intorno. Lo sporco, il brulicare, il caos, sono contenuti là, in quell'architettura monumentale e gelida che inghiotte ogni cosa, che nella sua grandezza lascia passare senza mai afferrare. Indifferente splendido edificio razionalista, è la porta da cui, più che entrare a Roma, si può fuggire dal momento presente.
In realtà, più che il passaggio di umanità varia e variopinta, la cosa che mi attrae davvero verso Termini è l'edificio. Bianco, immenso, l'atrio (il dinosauro) con i suoi giochi di chiaro-scuro, gli archi bianchi dei lati, il contrasto con gli edifici intorno. Lo sporco, il brulicare, il caos, sono contenuti là, in quell'architettura monumentale e gelida che inghiotte ogni cosa, che nella sua grandezza lascia passare senza mai afferrare. Indifferente splendido edificio razionalista, è la porta da cui, più che entrare a Roma, si può fuggire dal momento presente.
Sogni ardenti di qualcos'altro!
Frenesia di andare via,
(Oh onda che in me ingrossa!)
via dalla vita, dove la vita deve rimanere -
vita sempre fino ad oggi!
Altre cose e altri luoghi!
Non una vita! Non la mia almeno!
Oh, essere il vento, un' ala,
un veliero che mi portino lì!
Dove? Se lo sapessi,
non ci vorrei andare.
(Fernando Pessoa)
Frenesia di andare via,
(Oh onda che in me ingrossa!)
via dalla vita, dove la vita deve rimanere -
vita sempre fino ad oggi!
Altre cose e altri luoghi!
Non una vita! Non la mia almeno!
Oh, essere il vento, un' ala,
un veliero che mi portino lì!
Dove? Se lo sapessi,
non ci vorrei andare.
(Fernando Pessoa)
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giovedì 19 marzo 2009
Sulle mie impronte
Certe mattine c'è il sole, un bel sole che scalda anche se è inverno. Apro l'agenda e guardo se ho davvero qualcosa di importante da fare. Certi giorni ho fortuna, non serve che io vada a lavorare, la mia presenza in loco non è necessaria. Allora telefono, non mento, non ce n'è bisogno, dico che non vado e prendo lo scooter. Roma ha il mare vicino, in meno di mezz'ora sono a Capocotta o a Torvaianica, parcheggio e vado sulla spiaggia. Sono momenti rari, la combinazione di eventi che deve verificarsi ha una bassissima probabilità, ma non è zero, ogni tanto è capitato. I piedi mi portano lungo il bagnasciuga, sulla sabbia fine, il rumore del vento e del mare che, se calmo, sembra accarezzare la terra, qualche pensionato con cane, un gruppetto di ragazzi che hanno saltato la scuola. Il vento porta l'odore della macchia mediterranea se viene da terra, del mare se soffia nell'altra direzione. Odori di natura, immagini di vita a due passi dalla città, isole per i sensi sovraffolati di segnali. Cammino, penso oppure no, lascio andare lo sguardo e non ho quasi mai con me la macchina fotografica. Questi sono attimi solo da vivere e ricordare. Cammino, dicevo, un piede davanti all'altro mentre le vite altrui scorrono accanto. Due ragazzi presi l'uno dall'altro, si guardano senza parlare, non vedono e non sentono altro che loro stessi, si toccano il viso a vicenda, si accarezzano, persi in quel particolare tipo di amore che porta l'adolescenza e che io non ho mai saputo cosa fosse. Continuo, poco più avanti due anziani, uno barbuto e magro, l'altro calvo e rotondo, hanno due cani piccoli, di pura razza bastarda, uno chiaro color miele, l'altro nero con una macchia bianca sul muso da cui risalta il naso. Camminano lenti mentre i due animali corrono, saltano nell'acqua, annusano, abbaiano. Li guardano "Te fa piacere guardalli, me pare de tornà regazzino" dice il barbuto all'altro con un sorriso. "Seee da regazzino io mica sartavo così! già rotolavo che ero er ciccia bomba d'a compagnia!" si guardano e ridono. Mi vedono "buongiorno" e continuano a ridere. "Signorì nun se cambia mai" , rido con loro e mi fermo a guardare i cani. "Come mai sta qua invece che a lavorà o a fa ... quarcosa?" mi chiede il barbuto con aria maliziosa, "Ho lavorato troppo e oggi c'è il sole..." rispondo "Me pare un ottimo motivo" afferma annuendo il più tondo dei due, mentre lancia un legnetto al cane nero. "Che lavoro fa?" chiedono quasi all'unisono, ridacchiano "che vole passamo troppo tempo 'nsieme oramai ..." gli dico che lavoro faccio e mi guardano come uno strano animale. Il barbuto sorride, "Lei fa un lavoro da uomo" e mi guarda con aria provocatoria "Be' insomma, mica faccio lo scaricatore..." ci guardiamo e ridiamo tutti e tre. Di colpo mi trovo a pensare che sembriamo tre ragazzini che si sono fatti troppe canne, ridiamo come scemi per qualsiasi cosa, siamo ubriachi di ossigeno, di salsedine e luce. "Comunque fa un mestiere da persona seria, mica come me che so' sempre stato un gran cazzaro" dice il barbuto strizzandomi l'occhio. "See er più cazzaro de Torvaianica!" afferma annuendo quasi serio il calvo. Vengo così a sapere che il barbuto ha fatto per un po' il giocatore di poker professionista, poi si è messo su un locale, si è sposato anche un paio di volte ed ha sei figli sparsi per il mondo con diverse madri non tutte italiane, non tutte ex-mogli, però li sente tutti e gli sono simpatici afferma serio. "Come padre ho fatto schifo quanno ereno regazzini, ma poi me so dato da fa' e ho recuperato" dice con orgoglio. Il locale era un posto da qualche parte sul litorale di Ostia, d'estate lo faceva guadagnare abbastanza per tutto l'anno, "anzi pe' due..." afferma e così, da ottobre a maggio si poteva permettere di non fare nulla. "Vede signorì, io so abituato a nun fa un cazzo! mica come lui che ce stava a soffrì d'esse annato in pensione" e da una pacca sulla spalla dell'amico. "E pure lei deve sta attenta, se organizzi per tempo, che a nun fa un cazzo ce vole pratica...".
(.... continua... prima o poi)
(.... continua... prima o poi)
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lunedì 16 marzo 2009
Dei frullatori nella vita
Comincia così, in modo non del tutto chiaro, succede qualcosa, poi un'altra, poi ancora qualcos'altro. E' partito uno tsunami. Magari pensavi solo di dover rifare il bagno di casa, o, cosa più complessa, di dover traslocare. Ti dici be' va be' in effetti è mica roba dell'altro mondo. Ci dai giù di luoghi comuni per un po' (in fondo non tutti i mali vengono per nuocere, era ora di cambiare aria...) ti rassicuri come puoi. Ti metti in tenuta da battaglia e parti. Fai il da farsi, chiami l'idraulico, ti fai un tot di preventivi, oppure cominci ad inscatolare mentre ti fai a tappeto tutti gli annunci di affittasi che ci sono tra web e giornali locali. Organizzi, fai. Arriva il gran giorno, si fanno i lavori oppure effettivamente cambi casa, cambi aria, cambi negozi e cominci a cambiare anche il guardaroba che nel frattempo ne hai buttato metà. Tiè, cambi pure taglia di vestiti! Cambi ruolo sul lavoro, cambi anche un po' le frequentazioni, ti metti a fare cose mai fatte, che so, ti apri un blog. Continui presa nel vortice, vai con l'onda. Sperimenti di qui di lì, di sopra e di sotto. Intanto scavi nell'anima alla disperata ricerca di un appiglio, di qualcosa che sia rimasto uguale in modo da sedertici sopra e rifiatare. Niente, lo tsunami ti trascina. Bestemmi, perché, porco-qui, porco-lì, l'hai innescato tu tutto questo casino! Vai a ritroso e analizzi i perché e i per-come, magari da un tubo rotto in bagno, hai rimesso in discussione tutta la tua vita. Non ti è chiaro se sei in un film di Almodovar, di Bergman o semplicemente nella settimana enigmistica, con davanti il cruciverba più fottutamente cervellotico che tu abbia mai visto. Eppure hai sempre odiato i cruciverba... quindi che cacchio stai facendo?
Tutto va troppo in fretta, scappa di qua e di là, nulla rimane lo stesso per più di un paio di mesi. Non ci sono approdi, ti sembra di fare rafting ma l'istruttore dov'è? Ti accorgi che si è buttato tempo fa, ora sta a riva e ti saluta con la manina, leggi il labiale nel rumore dell'acqua che scorre "Vai vai, mo so cazzi tuoi!" (è romano anche l'istruttore). E va bene s'è dato pure lui. Allora prendi il timone, ti dai da fare, schivi, aggiusti il peso, scansi... finalmente atterri. Sei fradicia, ti siedi, dici adesso non mi muovo e mi riposo un po'. Ti stendi sulla sabbia della riva, o erba o quel che capita, apri le braccia e fai il morto. Suona il cellulare, ma come ancora funziona? Sì funziona. Ora non rispondo pensi, poi guardi, è la zia. E riparte l'onda. Ti alzi, corri emergenza emergenza, lo sai che è probabilmente solo un ennesimo attacco di panico, ma chefailamolli? Sia mai! Riprendi a correre. In corsa risolvi, nel frattempo hanno chiamato altre tre persone, una ha un problema, una è contenta, un'altra chiama ma non si capisce perché. Il punto interrogativo che hai nella testa cresce, cresce e lo senti così grande che sicuramente lo vedono tutti anche da fuori. Ecco ora hai sicuramente un punto interrogativo per cappello, ce l'hai anche negli occhi, qualcuno pensa sia miopia, ma tu è da vicino che non ci vedi, qualcun'altro pensa siano pensieri profondi, ma il tuo unico neurone ha smesso di funzionare molto tempo prima, un altro pensa che sia amore e allora scappa, un altro pensa che sia amore e si avvicina. Tu intanto non hai capito niente, non sai che sta succedendo, stai solo cercando di raccogliere le tue spoglie e rimetterle insieme. Timidamente chiedi "Qualcuno può spegnere il frullatore per favore?" ... ma nessuno risponde.
Tutto va troppo in fretta, scappa di qua e di là, nulla rimane lo stesso per più di un paio di mesi. Non ci sono approdi, ti sembra di fare rafting ma l'istruttore dov'è? Ti accorgi che si è buttato tempo fa, ora sta a riva e ti saluta con la manina, leggi il labiale nel rumore dell'acqua che scorre "Vai vai, mo so cazzi tuoi!" (è romano anche l'istruttore). E va bene s'è dato pure lui. Allora prendi il timone, ti dai da fare, schivi, aggiusti il peso, scansi... finalmente atterri. Sei fradicia, ti siedi, dici adesso non mi muovo e mi riposo un po'. Ti stendi sulla sabbia della riva, o erba o quel che capita, apri le braccia e fai il morto. Suona il cellulare, ma come ancora funziona? Sì funziona. Ora non rispondo pensi, poi guardi, è la zia. E riparte l'onda. Ti alzi, corri emergenza emergenza, lo sai che è probabilmente solo un ennesimo attacco di panico, ma chefailamolli? Sia mai! Riprendi a correre. In corsa risolvi, nel frattempo hanno chiamato altre tre persone, una ha un problema, una è contenta, un'altra chiama ma non si capisce perché. Il punto interrogativo che hai nella testa cresce, cresce e lo senti così grande che sicuramente lo vedono tutti anche da fuori. Ecco ora hai sicuramente un punto interrogativo per cappello, ce l'hai anche negli occhi, qualcuno pensa sia miopia, ma tu è da vicino che non ci vedi, qualcun'altro pensa siano pensieri profondi, ma il tuo unico neurone ha smesso di funzionare molto tempo prima, un altro pensa che sia amore e allora scappa, un altro pensa che sia amore e si avvicina. Tu intanto non hai capito niente, non sai che sta succedendo, stai solo cercando di raccogliere le tue spoglie e rimetterle insieme. Timidamente chiedi "Qualcuno può spegnere il frullatore per favore?" ... ma nessuno risponde.
domenica 15 marzo 2009
Affinità
A volte incontri qualcuno a cui sei affine. Ti riconosci, ti frequenti, crei qualcosa, una cosa qualsiasi ma che è tua e dell'altra persona. Poi però si interrompe la comunicazione. Qualcosa, forse nella partenza stessa, ha minato la possibilità di un'intesa duratura. Qualcosa si è messo in mezzo e trasformare è difficile. C'è l'orgoglio di ciascuno, i fantasmi del passato, perché tranne che a un anno, tutti abbiamo un passato, e questo, troppo spesso, getta ombre sulla serenità possibile. O ancora, nonostante le affinità, si comunica con il mondo in modo talmente diverso da non riuscire a capirsi, sopratutto se a distanza. Così ci si perde per strada.
Non mi è capitato spesso di perdere completamente qualcuno che mi interessava come essere umano, sia uomo che donna. Magari ho perso i contatti per un po', mi sono incartata io o l'altro, ciascuno preso in un gioco un po' perverso con sé stesso, come uno scontro, solo immaginario, a chi non voleva dire o cedere o fare un passo. A volte non ho riconosciuto io il movimento verso di me, altre volte è stato l'altro (o altra) a non riconoscere il mio movimento conciliatore. Ma nella maggior parte dei casi, alla fine, ci si è ritrovati. Con queste persone il grado di affinità era tale che questa non era stata esaurita dal gioco perverso delle rispettive menti, ci si ritrovava e si inventava una relazione nuova, diversa e spesso, molto migliore di quella proposta nella prima fase della frequentazione. Si ricominciava a creare insieme, creare allegria, solidarietà, affetto e quant'altro venisse fuori. Quelle volte in cui questo non è accaduto, poche a dire il vero, me ne rendevo conto dopo, ad un certo punto, era passato tanto tempo, magari un anno, e quella persona era sparita dalla mia vita del tutto. Allora mi prendeva un senso di tristezza, di perdita, ci eravamo, inutilmente, sconfitti a vicenda.
Non ho in mente ex-fidanzati quando dico questo, quelli, quando me li sono persi per strada, me li sono voluti perdere. Sono state relazioni esaurite (la categoria fidanzati è caratterizzata da anni e anni di frequentazione), in cui ci si è spesso fatti molto male. Penso piuttosto ad amicizie, maschili e femminili, ad ex-amanti con i quali ci si è lasciati con tristezza, malinconia, ma senza particolare rabbia. Penso a quelle amiche che hanno avuto una vita diversa dalla mia, ma che ad esempio, una volta un po' cresciuti i figli, sono tornate nella mia vita con la stessa allegria di prima. Penso a quelli che mi hanno corteggiato e se rifiutati, si sono rintanati altrove per un po' e poi sono risbucati fuori o si sono lasciati stanare da me.
Ecco io ho questa idea bislacca che se c'è un'affinità profonda con qualcuno, non ci si perda mai del tutto, che sia sempre possibile, se non ci si è fatti del male seriamente, trovarsi di nuovo, da qualche parte, in qualche modo, senza una ragione specifica e ricominciare a ridere insieme.
E le metafisiche dimenticate negli angoli dei caffè d'ogni dove,
le filosofie solitarie delle soffitte dei falliti,
le idee casuali di tanti casuali, le intuizioni di tanti nessuno,
forse un giorno, in fluido astratto e sostanza implausibile,
si coaguleranno in un Dio e occuperanno il mondo.
(Fernando Pessoa)
Non mi è capitato spesso di perdere completamente qualcuno che mi interessava come essere umano, sia uomo che donna. Magari ho perso i contatti per un po', mi sono incartata io o l'altro, ciascuno preso in un gioco un po' perverso con sé stesso, come uno scontro, solo immaginario, a chi non voleva dire o cedere o fare un passo. A volte non ho riconosciuto io il movimento verso di me, altre volte è stato l'altro (o altra) a non riconoscere il mio movimento conciliatore. Ma nella maggior parte dei casi, alla fine, ci si è ritrovati. Con queste persone il grado di affinità era tale che questa non era stata esaurita dal gioco perverso delle rispettive menti, ci si ritrovava e si inventava una relazione nuova, diversa e spesso, molto migliore di quella proposta nella prima fase della frequentazione. Si ricominciava a creare insieme, creare allegria, solidarietà, affetto e quant'altro venisse fuori. Quelle volte in cui questo non è accaduto, poche a dire il vero, me ne rendevo conto dopo, ad un certo punto, era passato tanto tempo, magari un anno, e quella persona era sparita dalla mia vita del tutto. Allora mi prendeva un senso di tristezza, di perdita, ci eravamo, inutilmente, sconfitti a vicenda.
Non ho in mente ex-fidanzati quando dico questo, quelli, quando me li sono persi per strada, me li sono voluti perdere. Sono state relazioni esaurite (la categoria fidanzati è caratterizzata da anni e anni di frequentazione), in cui ci si è spesso fatti molto male. Penso piuttosto ad amicizie, maschili e femminili, ad ex-amanti con i quali ci si è lasciati con tristezza, malinconia, ma senza particolare rabbia. Penso a quelle amiche che hanno avuto una vita diversa dalla mia, ma che ad esempio, una volta un po' cresciuti i figli, sono tornate nella mia vita con la stessa allegria di prima. Penso a quelli che mi hanno corteggiato e se rifiutati, si sono rintanati altrove per un po' e poi sono risbucati fuori o si sono lasciati stanare da me.
Ecco io ho questa idea bislacca che se c'è un'affinità profonda con qualcuno, non ci si perda mai del tutto, che sia sempre possibile, se non ci si è fatti del male seriamente, trovarsi di nuovo, da qualche parte, in qualche modo, senza una ragione specifica e ricominciare a ridere insieme.
E le metafisiche dimenticate negli angoli dei caffè d'ogni dove,
le filosofie solitarie delle soffitte dei falliti,
le idee casuali di tanti casuali, le intuizioni di tanti nessuno,
forse un giorno, in fluido astratto e sostanza implausibile,
si coaguleranno in un Dio e occuperanno il mondo.
(Fernando Pessoa)
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giovedì 12 marzo 2009
Bonsai
Che gli alberi siano un mio amore è cosa nota su questo blog. Amo gli alberi antichi sopratutto e gli ulivi più degli altri, non amo invece i bonsai. Come non riesco ad avere animali in un appartamento senza sbocchi esterni, così non riesco neanche a pensare di possedere o anche apprezzare un bonsai. Un albero prigioniero, costretto, limitato. Magari è solo una proiezione della mia claustrofobia, ma non posso quasi guardarli. Tranne rare eccezioni. Questo bonsai, quando lo vidi, catturò tutto la mia attenzione. Un albero antico, piccolo, contorto dal tempo e dal sadismo umano, stava lì con quella forma come se avesse due gambe impantanate, catturate dal terreno. I rami davvero sembravano braccia sollevate, cariche come di uno sciame di pensieri, pesanti, molesti. Quel bonsai mi sembrava una donna, forse ero proprio io, mi rappresentava. Ero a Vancouver, in un centro culturale di ChinaTown. Ero stanca, avevo un trasloco sulle spalle, un viaggio aereo demenziale addosso, mi sentivo così e proiettavo su quel bonsai la sensazione di pesantezza del vivere che mi avvolgeva. L'ho guardato a lungo, come sperassi si muovesse finalmente, si scrollasse di dosso quei pensieri pesanti, quegli impacci che gli imbrigliavano le gambe. L'ho visto uscire dal vaso. Lasciare la poca terra che ancora lo teneva e scappare via. Chissà dov'è arrivato oggi quell'albero in fuga?
Quando mi sveglierò dall'essere sveglio?
(Fernando Pessoa)
(Fernando Pessoa)
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domenica 8 marzo 2009
Aspettando il sole dell'estate
La temperatura comincia a salire, mentre l'umidità che sento nelle ossa è al suo massimo annuale; allora, oggi, cerco il sole nelle immagini salvate sul computer. Guardo le linee nette disegnate dagli occhi di Sandro in questa inquadratura. Le colonne evocano il calore, le pietre del foro roventi in piena estate, il cielo senza una nube in quei momenti dell'anno in cui, invece, ce le vorremmo vedere. Immagino i passi sulla via Sacra, lo sguardo che vaga tra le rovine mentre le cicale, sul Palatino, sovrastano il rumore di fondo del traffico. Vedo i turisti accaldati che commentano bevendo da bottigliette di plastica, i falsi centurioni con telefonino, mezzo abbronzati sotto gli elmi di latta, i gatti acciambellati all'ombra dei muretti, quasi sento sulla pelle il calore che deve ancora tornare. Ricordo il giorno estivo che si stempera nel fresco della sera, nel vento di ponente che arriva e accarezza i tetti di Roma, indugiando solo per un momento sul Colosseo mentre il sole se ne va a dormire.
Le sere blu d'estate, andrò per i sentieri
graffiato dagli steli, sfiorando l'erba nuova:
ne sentirò freschezza, assorto nel mistero.
Farò che sulla testa scoperta il vento piova.
Io non avrò pensieri, tacendo nel profondo:
ma l'infinito amore l'anima mia avrà colmato,
e me ne andrò lontano, lontano e vagabondo,
guardando la Natura, come un innamorato.
(Arthur Rimbaud, Sensazione)
graffiato dagli steli, sfiorando l'erba nuova:
ne sentirò freschezza, assorto nel mistero.
Farò che sulla testa scoperta il vento piova.
Io non avrò pensieri, tacendo nel profondo:
ma l'infinito amore l'anima mia avrà colmato,
e me ne andrò lontano, lontano e vagabondo,
guardando la Natura, come un innamorato.
(Arthur Rimbaud, Sensazione)
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giovedì 5 marzo 2009
Mare d'inverno
Una giornata di sole in un inverno piovoso e freddo. Quattro passi sulla sabbia che comincia a scaldarsi. Oggetti dell'estate, che sembra irraggiungibile, ad arredare la spiaggia. Anche le sdraio sono in attesa, aspettano il momento di accogliere i corpi, gli abbandoni estivi, il calore del far nulla di chi può permetterselo.
Passi sulla sabbia, senza una meta, parlando di ogni cosa, viaggiando all'interno di sé mentre quei pochi raggi di sole confortano. Anche l'inverno finisce, dentro e fuori di noi.
Passi sulla sabbia, senza una meta, parlando di ogni cosa, viaggiando all'interno di sé mentre quei pochi raggi di sole confortano. Anche l'inverno finisce, dentro e fuori di noi.
Ritorna ancora e prendimi,
amata sensazione, ritorna e prendimi,
quando si ridesta viva la memoria
del corpo, e l'antico desiderio di nuovo si versa nel sangue,
quando le labbra e la pelle ricordano, e la carne,
e le mani come se ancora toccassero.
Ritorna ancora e prendimi, la notte,
quando le labbra ricordano, e la carne…
(Costantino Kavafis, Torna)
amata sensazione, ritorna e prendimi,
quando si ridesta viva la memoria
del corpo, e l'antico desiderio di nuovo si versa nel sangue,
quando le labbra e la pelle ricordano, e la carne,
e le mani come se ancora toccassero.
Ritorna ancora e prendimi, la notte,
quando le labbra ricordano, e la carne…
(Costantino Kavafis, Torna)
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martedì 3 marzo 2009
Sguardi notturni
Il calore della casa sì è fatto, ormai, soffocante, il sonno non vuol venire, decido di uscire, mi vesto da pneumatico (pile, giacca a vento, golf, doppia maglietta, cappello etc.). Fa freddo, saranno zero gradi qua fuori. Le mani intirizzite reggono la macchina fotografica, cerco barlumi di luce nel semi-buio della notte romana. Il quartiere è quieto, vicino casa ci sono solo alcuni barboni ubriachi, qualche tale dal sesso indefinito che sorride ai passanti. Il bar all'angolo, vicino a Santa Maria Maggiore è aperto, c'è molta gente all'interno, non è tardissimo, in fondo. Cammino un po' per le strade intorno alla chiesa, attraversando Via Merulana, passo dall'Esquilino al quartiere Monti. Una strada separa due universi. Vicoli vuoti e silenziosi a Monti, strade ampie, quasi torinesi, sempre piene di gente all'Esquilino. Un mondo cosmopolita che confina e si mescola con la Roma antica.
Cammino nel silenzio, poi ritorno sulla piazza dell'Esquilino, là torna il rumore, gli autobus notturni, le auto su via Cavour, lo schiamazzo di qualche auto di ragazzi con la musica "a palla" (tuz tuz techno/house a tutto volume), colonna sonora istantanea di un tipo di notte che non mi è mai appartenuto. Sto là per un po', osservo le macchine che scivolano via, più giù c'è un pub molto frequentato da turisti e residenti anglofoni, c'è anche un tale che declama qualcosa, ha capelli rossi spruzzati di grigio, è alto, grande, indossa un kilt e una maglietta bianca a maniche corte, è abbastanza sbronzo, ma ha un'aria così felice che mette di buon umore. Mi passa accanto strizzando un occhio e sorridendo "Bela Roma, bela... you" e ride. Deve essere veramente sbronzo o veramente felice o entrambe le cose. Sento la sua voce che si allontana continuando a declamare parole impastate. Il freddo sta cominciando a penetrare la mia corazza di lana-pile e tessuti vari, le mani formicolano, mi avvio verso il bar aperto. Entro ed è caldo, c'è ancora gente, non molta, una coppia di ventenni totalmente presi l'uno dall'altra, due bengalesi che discutono animatamente, uno dei due sembra ubriaco, l'altro no, cerca di togliergli dalle mani un bicchiere di liquido scuro, indica un caffè, l'altro scuote la testa e dice qualcosa in bengalese ad alta voce, il barista li guarda con attenzione. Ordino un orzo e mentre aspetto il bengalese sbronzo comincia a strepitare, prima nella sua lingua, poi in italiano "maledetti, moglie ..., ... maledetti italiani di merda..." l'altro cerca di farlo tacere, il barista interviene "Oh, dì all'amico tuo che di merda ci sarà lui, fallo smette che si no ve butto fori!". L'altro alza la testa, è piccolo di statura, ma ora sembra un gigante "Stia tranquillo, e abbia un po' di compassione, quest'uomo ha appena perso sua moglie... ora ce ne andiamo" replica in perfetto italiano, senza un'ombra di accento, con un tono di voce che non ammette replica e uno sguardo che non so neppure descrivere, trasuda dignità, dolore. Il barista mi guarda, io mi giro e quasi simultaneamente diciamo"mi dispiace". Ora il bengalese sbronzo piange contro la spalla dell'amico che sta tirando fuori i soldi per pagare mentre tiene un braccio sulle spalle dell'altro "lasci stare, offre la casa" dice il barista con un gesto della mano. Quello sobrio fa solo un cenno con la testa e porta fuori il suo amico che continua a piangere con le mani sul viso. Bevo in silenzio il mio orzo e sento il barista che fra sé e sé bofonchia "Secondo me nun stava a fa finta e pure se stava a fa finta chissene frega, du' amari e 'n caffè nun me rovinano" si gira e mette a posto un bicchiere.
Cammino nel silenzio, poi ritorno sulla piazza dell'Esquilino, là torna il rumore, gli autobus notturni, le auto su via Cavour, lo schiamazzo di qualche auto di ragazzi con la musica "a palla" (tuz tuz techno/house a tutto volume), colonna sonora istantanea di un tipo di notte che non mi è mai appartenuto. Sto là per un po', osservo le macchine che scivolano via, più giù c'è un pub molto frequentato da turisti e residenti anglofoni, c'è anche un tale che declama qualcosa, ha capelli rossi spruzzati di grigio, è alto, grande, indossa un kilt e una maglietta bianca a maniche corte, è abbastanza sbronzo, ma ha un'aria così felice che mette di buon umore. Mi passa accanto strizzando un occhio e sorridendo "Bela Roma, bela... you" e ride. Deve essere veramente sbronzo o veramente felice o entrambe le cose. Sento la sua voce che si allontana continuando a declamare parole impastate. Il freddo sta cominciando a penetrare la mia corazza di lana-pile e tessuti vari, le mani formicolano, mi avvio verso il bar aperto. Entro ed è caldo, c'è ancora gente, non molta, una coppia di ventenni totalmente presi l'uno dall'altra, due bengalesi che discutono animatamente, uno dei due sembra ubriaco, l'altro no, cerca di togliergli dalle mani un bicchiere di liquido scuro, indica un caffè, l'altro scuote la testa e dice qualcosa in bengalese ad alta voce, il barista li guarda con attenzione. Ordino un orzo e mentre aspetto il bengalese sbronzo comincia a strepitare, prima nella sua lingua, poi in italiano "maledetti, moglie ..., ... maledetti italiani di merda..." l'altro cerca di farlo tacere, il barista interviene "Oh, dì all'amico tuo che di merda ci sarà lui, fallo smette che si no ve butto fori!". L'altro alza la testa, è piccolo di statura, ma ora sembra un gigante "Stia tranquillo, e abbia un po' di compassione, quest'uomo ha appena perso sua moglie... ora ce ne andiamo" replica in perfetto italiano, senza un'ombra di accento, con un tono di voce che non ammette replica e uno sguardo che non so neppure descrivere, trasuda dignità, dolore. Il barista mi guarda, io mi giro e quasi simultaneamente diciamo"mi dispiace". Ora il bengalese sbronzo piange contro la spalla dell'amico che sta tirando fuori i soldi per pagare mentre tiene un braccio sulle spalle dell'altro "lasci stare, offre la casa" dice il barista con un gesto della mano. Quello sobrio fa solo un cenno con la testa e porta fuori il suo amico che continua a piangere con le mani sul viso. Bevo in silenzio il mio orzo e sento il barista che fra sé e sé bofonchia "Secondo me nun stava a fa finta e pure se stava a fa finta chissene frega, du' amari e 'n caffè nun me rovinano" si gira e mette a posto un bicchiere.
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